Terza domenica di Pasqua

Cappella Centro Giovanni XXIII
26-04-2020

At 2,14a.22-33; Sl 15(16); 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

Il racconto dell’evangelista Luca ci ha già dislocati nelle case dove abitiamo. Il cammino, di cui si narra, giunge all’abitazione dei due discepoli ad Emmaus. In casa avviene il gesto e il segno dello spezzare il pane che provoca un radicale cambiamento nella dinamica del racconto. Ma torniamo all’inizio: è davvero difficile immaginarci il Signore risorto arrivare a piedi, da solo, su una strada: non sappiamo quale. È detto, però, che essa da Gerusalemme conduce ad Emmaus. Si pensa ad un percorso di due ore. L’evangelista Luca narra che il Risorto si affianca al cammino sconsolato di due – uno dei quali si chiama Cleopa, dell’altro non è detto il nome – che sembrano in ritirata, talmente delusi che sembrano ignorare colui che li raggiunge.

Di queste immagini solitarie, oppure di figure che semplicemente ci passano accanto e da cui si mantiene un dovuto distacco, si sta caratterizzando anche il nostro uscire di casa, il nostro guardarci attorno, il nostro spostarci di luogo in luogo.

Deve essere stato davvero faticoso quel primo giorno della settimana in cui alcune donne, di cui parlano i vangeli, scoprono la tomba vuota. Questo segno lascia piuttosto indifferenti il gruppo dei discepoli, a cui le donne portano l’informazione.

Nel racconto che abbiamo ascoltato la coppia dei discepoli che se ne torna a casa ci disegna «un quadretto esemplare del clima che doveva esserci, la sera del giorno dopo il sabato, tra coloro che erano stati con Gesù» (Rosanna Virgili). La condizione di “distanziamento sociale” che stiamo attraversando ci richiama direttamente questo clima soffuso e un po’ triste in cui si trovarono immersi i discepoli di Gesù, dopo la sua passione e la sua morte. Comprendiamo dai vangeli che a Pasqua non si diventa “festaioli”, essa non è una spensierata ricorrenza dove tutto si aggiusta, in cui poter nascondere la fatica di starci nella vita, di comprenderla, di appassionarsi ad essa, di servire la vita. Il Risorto stesso non tralascia nulla di quanto ha portato sulle sue spalle, delle ferite sul suo corpo, di quanto ha condiviso con i discepoli e la gente che incontrava, di ciò che egli ha atteso e sperato, addirittura degli abbandoni da parte dei suoi che ha accettato e di cui non ha disperato.

È davvero bella l’espressione che Pietro, nella sua prima testimonianza su Gesù risorto cinquanta giorni dopo, riprende dal Primo Testamento. Non dimentichiamo che Pietro aveva vissuto tutta la fatica e l’incredulità di quel primo giorno della settimana. Egli mette in bocca a Davide queste parole profetiche, riferendole ora a Cristo: «Mi hai fatto conoscere le vie della vita» (At 2,28).

Gesù ha conosciuto, percorrendole, le “vie della vita”. Ecco perché raggiunge quei due discepoli e sta al loro passo.

Cosa succede in quel cammino condiviso? Si percepisce il ribaltamento interiore che coglie i discepoli dopo i giorni della passione e della morte di Gesù. Così lo descrive Rosanna Virgili: «Un circuito intrigante: i discepoli che raccontano a Gesù – senza neppure riconoscerlo – la sua stessa storia. Che evangelizzano Gesù, senza di lui! Un vangelo senza gioia, un racconto senza speranza».

Il sepolcro vuoto aveva colpito e interessato il gruppo di donne che lo raggiunsero di buonora in quel primo giorno, ma agli apostoli questo segno non ha dato la Pasqua. È stato necessario che Gesù si manifestasse loro e che lo potessero toccare con gli occhi, con le mani, nel pane che lui spezzava, soprattutto toccarlo con il cuore.

È emblematico ciò che si dicono i due discepoli ad Emmaus: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Proprio in questo momento e nel loro ripartire per raggiungere gli altri a Gerusalemme inizia realmente per loro il cammino di risurrezione aperto da Gesù.

L’evangelista in questo cambiamento del cuore che avviene nei due discepoli ci offre una scena commovente. Con lo sguardo spento e il cuore indurito i due avanzano una proposta che è un invito: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». È una preghiera intensa che sgorga spontanea dalla tristezza che c’è in loro, ma è anche una piccola sincera apertura all’insegna dell’accoglienza.  Il “non-riconosciuto” Gesù si ferma, si fa ospitare, si mette a tavola, prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà loro. In quel momento sparisce dalla loro vista. Ora c’è risurrezione!

C’è una raffigurazione straordinaria di questa scena del pittore Arcabàs che ha dipinto, in un ciclo, l’esperienza dei due di Emmaus. Mi riferisco all’ultimo quadro: nella stanza c’è una tavola apparecchiata, la cena è rimasta a metà. Non c’è nessuno, ma la porta di ingresso è spalancata. C’è una sedia per terra: chi vi era seduto di fretta è partito. Oltre la porta spalancata si vede un cielo di sera carico di stelle. Anche i due discepoli si sono messi in cammino per raggiungere gli altri. Ormai la risurrezione di Gesù ha aperto la porta e inaugurato un cammino nuovo che comincia dallo spezzare il pane.