a cura di don Ezio Del Favero

56 – Il montanaro e le figlie del Sole

«Sono innamorata del giovane che custodisce il bianco gregge. Ma se mi mettessi con lui, mio padre il Sole lo farebbe uccidere»

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Sulla cordigliera innevata, un giovane montanaro osservava il gregge di lama bianchi destinati a essere sacrificati al dio Sole. Si mise a suonare il flauto con una poesia e un’abilità rare per un giovane della sua età.

Un giorno, mentre egli suonava, arrivarono due ragazze. Il giovane fu sorpreso dalla loro bellezza e s’inginocchiò pensando fossero le creature straordinarie delle fonti cristalline che sembravano esistere da quelle parti. Le ragazze lo tranquillizzarono: «Non temere, non siamo malvagie, siamo le figlie del Sole!». Il giovane si rialzò e parlò con loro fino al momento di riunire il gregge e di tornare al villaggio. La ragazza più grande, impressionata dalla gentilezza e dall’aspetto del pastore, fu colpita da una medaglietta d’argento che egli portava sulla fronte, sulla quale vi erano impresse due persone che si nutrivano di un cuore.

Quella notte la ragazza non riuscì a prendere sonno, pensando al pastore di cui si era innamorata. Nel suo palazzo abitavano le donne del Sole – vergini provenienti dalle 4 province dell’impero Inca – e vi erano 4 fonti nelle quali esse si bagnavano, ciascuna nella fonte che scorreva verso la provincia in cui era nata.

Quando si addormentò, la giovane sognò un uccello che volava da un albero all’altro cinguettando, per poi accostarsi a lei: «Non addolorarti, andrà tutto bene!».

La ragazza confessò: «Sono innamorata del giovane che custodisce il bianco gregge. Ma se mi mettessi con lui, mio padre il Sole lo farebbe uccidere». L’uccello la invitò: «Alzati e siediti tra le 4 fonti e canta ciò che hai nel cuore. Se le fontane ripeteranno i tuoi versi, potrai tranquillamente fare ciò che vorrai!».

Al risveglio la giovane si pose tra le 4 fontane e cantò ciò che aveva visto sulla medaglietta d’argento: «Magicuts isutu cuyuc utusi cucim». Le fonti ripeterono quei versi. Vedendo che esse erano favorevoli, la principessa tornò a riposare tranquilla.

Anche il pastore, pensando alla bellezza della ragazza, rattristato per quell’amore senza speranza, suonava con il flauto strazianti melodie. Sua madre, che viveva lontano e che aveva il potere della divinazione, intuendo il dolore del figlio e l’infausto destino che lo attendeva, attraversò i sentieri di montagna e arrivò alla capanna del figlio. Vedendolo disperato, gli disse: «Non scoraggiarti, troveremo un rimedio!». La donna se ne andò tra le rocce a raccogliere le erbe utili per curare il dolore.  Quando tornò nella capanna per cucinare le erbe, sulla soglia trovò le due principesse. Esse la salutarono e le chiesero qualcosa da mangiare. «Non ho altro che un piatto di erbe!». Le ragazze mangiarono sulla soglia, perché il giovane stava riposando in casa e la madre non voleva disturbarlo. Poi, pensando che il giovane fosse con il gregge, le principesse si alzarono per riprendere la via del ritorno attraverso i pascoli sperando di incontrarlo. Prima però la ragazza più grande vide un poncho accanto alla soglia e chiese da dove venisse. La donna: «Esso apparteneva a una donna amata da Pachacamac (“colui che dà vita al mondo”) e ci è stato lasciato in eredità». La principessa supplicò di darglielo, così da avere qualcosa che appartenesse al suo amato.

Le due sorelle, sulla via del ritorno, non incontrarono il giovane. Addolorata, la più grande non fece che piangere pensando a lui. A fatica si addormentò col poncho accanto e, nel sonno, si sentì chiamare. Il pastore era lì accanto. Le spiegò che il poncho era fatato e che lui si era trasformato in esso per poterla incontrare.

Quella notte i due innamorati dormirono insieme. Allo spuntare del giorno, la ragazza, col poncho in mano, uscì dal palazzo e raggiunse una gola tra i monti, dove il giovane si trasformò nuovamente in se stesso.

Ma una guardia del Sovrano, che aveva inseguito di nascosto la principessa, vide la scena e diede l’allarme. Gli amanti fuggirono attraverso i sentieri sulle montagne. Si riposarono in cima a una roccia. Quando si alzarono, rimasero pietrificati! Gli spiriti buoni avevano deciso così, pur di non vederli mai più separati…

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La parabola – raccolta in Perù – termina: «Ancora oggi, nella regione di Cusco, si possono vedere le statue dei due innamorati».

Nella tradizione Inca, il confine tra il reale e il magico non è ben definito. Gli Incas, artefici di una delle maggiori civiltà in America (XIII – XVI secolo), coltivavano un profondo senso del sacro, originato dalle catene montuose gigantesche e dai fiumi enormi. Il rispetto della natura da parte degli umani, così piccoli, pressocché insignificanti, arrivava fino alla sacra venerazione. Essi credevano negli spiriti buoni (da invocare) e negli spiriti malvagi (da combattere) che caratterizzavano il loro mondo…