A cura di don Ezio Del Favero

188 – La rupe dell’Adelasia

...la sposa rimase immortalata nella selvaggia rupe dal profilo di castello, detta la “Rocca dell’Adelasia”

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Aleramo, rimasto orfano, era stato allevato da una buona famiglia. Ignaro dei suoi nobili natali ereditati col sangue, appena adulto si dedicò alla carriera delle armi, distinguendosi così tanto da essere notato dall’Imperatore Ottone I che lo volle nella sua guardia personale. Bello, abile e gentile, il giovane cavaliere era ammirato da tutti. Ma l’essere considerato un trovatello e la sua povertà gli impedivano di salire ai sommi gradi della milizia. Tutte le ragazze sospiravano per lui, mentre tornava vittorioso da una guerra o quando in giostra cortese abbatteva l’uno dopo l’altro tutti i suoi avversari, ma nessuna di quelle nobili poteva sposarlo. Anche la figlia dell’Imperatore, la bella Adelasia, spasimava in segreto per il prode cavaliere, il quale a sua volta era innamorato di lei. Qualche rara volta i due riuscivano a vedersi di nascosto e si lamentavano del loro triste destino.

Venne il giorno in cui il Sovrano stabilì di dare la figlia in sposa a uno dei più nobili duchi. Fu allora che i giovani innamorati decisero di affrontare qualsiasi rischio pur di non separarsi. In una sera di festa, i due balzarono a cavallo e, fuggendo notte e giorno, si diressero verso l’Italia che Aleramo conosceva bene. L’imperatore, come apprese la fuga di Adelasia e di Aleramo, entrò in collera e ordinò ai suoi cavalieri di riportare indietro i due giovani, a tutti i costi.

Braccati come selvaggina, i fuggitivi andarono errando per la pianura, finché un giorno, risalita una valle, capitarono in un luogo montano selvaggio, solitario, ammantato di dense enormi faggete, dove era assai facile nascondersi. Scoprirono una grotta e l’adattarono a dimora. Lì Aleramo impugnò l’ascia del boscaiolo e lavorò con i montanari a fare il carbone.

Adelasia e Aleramo passarono lunghi anni felici, mentre la famigliola si accrebbe di tre figli. Lui, solerte carbonaio, per il grande vigore s’era acquistato gran fama tra gli abitanti del luogo. Quando i figli furono giovinetti, li addestrò con ogni cura al combattimento a piedi e a cavallo, con la spada e con la lancia. In breve, i tre giovani furono dei cavalieri fatti, pur continuando il rude e semplice mestiere del padre.

Un giorno, sulla Riviera di Ponente sbarcarono i Saraceni che, con puntate improvvise nell’entroterra, misero a ferro e fuoco borghi e villaggi, facendo schiavi gli infelici abitanti. Ogni terra si organizzò per resistere al flagello. Fu allora che Aleramo chiamò a raccolta carbonai, boscaioli e pastori, addestrandoli alla guerra e trasformandoli in valorosi soldati. Il cavaliere carbonaio fece gran danno ai Saraceni sbaragliandone le schiere. Su tutti i combattenti si distinguevano i suoi tre figli, che in breve divennero leggendari. Tutti ne parlavano, tutti ne esaltavano le gesta.

I feudatari, chiusi nei loro castelli, non sapendo come fare per liberarsi dei Saraceni, mandarono messi in Germania al vecchio Imperatore. Questi scese in Italia con un forte esercito impegnando seriamente i figli del Profeta. Ma un giorno l’Imperatore, alla testa della sua guardia, cadde in un’imboscata tesagli dai nemici.

Mentre le cose volgevano alla peggio per l’esercito imperiale, ecco che da una montagna irruppe una schiera di arditissimi soldati guidati da quattro cavalieri che fecero impeto alle spalle dei Saraceni, portando la confusione nelle loro schiere.

I quattro cavalieri, con ardire sovrumano, si buttarono nel bel mezzo della mischia e giocando di lancia e di spada, mandavano in pezzi chi tentava affrontarli. E i fanti non erano da meno di loro. Finché l’esercito moresco non fuggì nel più spaventoso disordine

L’Imperatore, alla fine della battaglia, volle conoscere quei prodi. Ma invano, perché essi erano tornati nella loro spelonca dove li attendeva Adelasia.

Informandosi sui quattro eroi, il sovrano venne a sapere che non erano nobili, ma semplici carbonai, abitanti in una grotta silvestre. Dopo lunga ricerca, l’Imperatore si presentò all’ingresso della caverna e lì, di fronte alla figlia e all’amore che provava per lei e pensando ai nipoti e al valore dimostrato da essi e dal loro padre, nonostante tutta la collera sopita, esplose in un sorriso di perdono.

Il sovrano imperiale volle condurre con sé la figlia e i suoi congiunti ed elevò a dignità nobiliare il genero concedendogli in feudo il territorio che avrebbe potuto delimitare con una cavalcata di tre giorni, dando origine alle marche di Savona e del Monferrato.


Così Aleramo – conclude la parabola raccolta in Piemonte – fu capostipite dei marchesi Aleramici. E la sua sposa rimase immortalata nella selvaggia rupe dal profilo di castello detta la “Rocca dell’Adelasia”.

Illustrazione di M. Poggi