C’erano due amici per la pelle. Dove si trovava Mahmud, c’era Ayaz; se Ayaz soffriva, Mahmud soffriva. Non c’erano compagni al mondo che non fossero più vicini o più preoccupati l’uno dell’altro. Eppure, Mahmud era sultano e Ayaz il suo schiavo, denominato “Giovane dalla pelle bianca” perché di una bellezza incredibile.
Il sultanato si trovava sotto gli alti e impervi monti Hajar, catena montuosa dell’Oman settentrionale. Ayaz era arrivato nella città del sultano prigioniero di un temuto conquistatore, incatenato in una fila di schiavi. Aveva camminato a lungo, incessantemente assetato dalla polvere dei deserti e ancor più del desiderio indistruttibile di raggiungere un giorno la luce che sentiva ardere nel profondo segreto della sua anima. Era venuto da lontano, aveva attraversato monti e mari fino a incrociare la sua strada con quella dei pirati cacciatori di schiavi del deserto.
Il sultano lo aveva preso al suo servizio, sedotto dal suo viso e dai suoi occhi di diamante nero, dalle sue labbra sottili e dalla sua pelle chiara. Di quel miserabile vagabondo venuto da lontano, aveva assaporato le parole semplici e mai vili. Ne aveva fatto il suo consigliere. Un giorno ne fece il suo fratello del cuore. All’inizio i cortigiani del sultano si commossero, ma poi il fatto che lo schiavo fosse loro preferito li scandalizzò così gravemente che tramarono la sua rovina e cominciarono a spiare ogni sua mossa. Il geloso visir affidò alcuni servitori a sorvegliarlo con discrezione.
Una sera, al visir fu raccontata un’incomprensibile stranezza sul comportamento di quel servo che odiava. Andò subito nell’alta sala lastricata di marmo dove Mahmud stava facendo colazione e, inchinandosi al potente sovrano, disse: «Maestà, non ignorate che, per la vostra preziosa sicurezza, faccio sorvegliare tutti i mortali, umili o fortunati, ai quali concedete il privilegio della vostra incomparabile presenza.
Ora, mi hanno appena rivelato delle informazioni inquietanti su Ayaz, il tuo schiavo. Ogni giorno, dopo aver lasciato la corte, scende nella Medina e si chiude da solo in una stanza inferiore senza finestre alla fine di un vicolo buio. Nessuno sa cosa stia tramando in quel luogo nascosto. Poi, quando esce, si preoccupa di chiudere a chiave la porta. A mio parere, lì nasconde un segreto inconfessabile. Non oso pensare, anche se è possibile, che egli incontri lì le persone cadute in disgrazia che non hanno altro desiderio che farti del male». «Ayaz è mio amico – rispose Mahmud tutto serio – e tuoi sospetti sono assurdi. Infangano solo te. Vattene!».
Il visir si ritirò e discretamente soddisfatto si disse: «Anche se il sovrano è apparso sicuro di sé, sicuramente la sua anima è stata turbata!». Mahmud, rimasto solo e pensieroso per qualche momento, alla fine mandò a chiamare Ayaz e gli chiese, prima ancora di abbracciarlo: «Fratello, non mi nascondi nulla?». «Nulla, mio signore!», rispose Ayaz sorridendo. «E se ti chiedessi che cosa fai nella stanza in cui vai tutte le sere nella Medina, me lo diresti?». Ayaz chinò la testa e sussurrò: «No, mio signore!».
Mahmud, col cuore spezzato, chiese: «Ayaz, mi sei fedele?». «Lo sono, mio signore!». Il sultano sospirò: «Lasciami!». Poi non riuscì a trovare pace.
Quella sera, quando Ayaz uscì dal suo rifugio segreto, nel vicolo buio si trovò davanti Mahmud accompagnato dal suo visir e da due possenti guardie. «Apri la porta di quella stanza», ordinò il sultano.
Lo schiavo, stringendo la chiave nel pugno e scuotendo la testa, si rifiutò di obbedire. Allora Mahmud lo prese per le spalle e, scuotendolo, gli disse: «Se non mi lasci entrare in questa stanza, la fiducia che ho in te finirà. Desideri questo? Vuoi che la nostra amicizia sia distrutta per sempre?». Ayaz abbassò la fronte. La chiave che teneva in mano gli scivolò di mano e cadde al suolo. Il visir la raccolse e aprì la porta. Mahmud entrò nella stanza buia: era vuota e umile come la cella di un servitore. Sul muro erano appesi un mantello rattoppato, un bastone e una ciotola da mendicante. Nient’altro. Mentre il sultano rimaneva in silenzio davanti a tanta povertà, Ayaz gli spiegò: «Vengo in questa stanza ogni giorno per non dimenticare chi sono: un vagabondo in questo mondo. Signore, tu mi ricopri di favori, ma sappi che i miei unici veri beni sono questo mantello con i buchi, questo bastone e questa ciotola da mendicante. Tu non hai il diritto di essere qui. Qui inizia il regno dei pellegrini perpetui. Il mio regno. Non potevi rispettarlo?».
«Perdonami», disse il sultano. Poi s’inchinò di fronte allo schiavo e baciò l’orlo del suo mantello. Ayaz uscì in silenzio…
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La parabola – di origine araba – insegna a non perdere di vista alcuni beni preziosi, quali l’amicizia, la fiducia, la memoria del passato, l’umiltà, la libertà, il rispetto, la speranza in un futuro che non è nelle nostre mani…