A cura di don Ezio Del Favero

200 – La dama bianca

«...io ti aspetterò, pensando a te ogni ora del giorno, sognando di te ogni ora della notte».

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«Oh, Hilde! E se non tornassi?». «Sigmondo, tu tornerai!». La giovane sposa tratteneva a stento le lacrime. «O presto o tardi, o in questa vita o nel tempo, tu ritornerai a me! Io ti aspetterò, tua per sempre».

L’indomani Sigmondo doveva partire per seguire i baroni nelle loro imprese di guerra. Hilde era diventata sua sposa da solo un mese. «Maledizioni ai baroni che mi strappano da te!». «Non maledire, Sigmondo! Tu farai ritorno glorioso e io ti aspetterò, pensando a te ogni ora del giorno, sognando di te ogni ora della notte. E, oltre la tela, tesserò un’orifiamma con i colori dell’alba da appendere al balcone quando udrò il corno squillare al tuo ritorno».

Sigmondo partì e nel paese la vita continuò. Alle prime luci dell’alba s’udivano il suono del corno del capraio che riuniva i branchi per salire ai pascoli, la ruota del mulino che si metteva a cigolare, il martellare del fabbro che faceva il contro-canto all’ascia del legnaiolo, i bambini che giocavano per le strade e le anziane che sedevano a filare mentre gli uomini su per i greppi falciavano l’erba comune o faticavano nei campicelli.

Hilde iniziò lo stendardo. Il suo sposo era partito che maggio cantava con gli uccellini nei boschi e rovesciava secchielli di colori sulle praterie. Sarebbe dovuto tornare a settembre quanto tutto pare distendersi nella morbidezza placata della luce già stanca. Ma settembre era passato e nessun suono di corno aveva riempito il silenzio dell’attesa. Le rondini erano partite e le marmotte si erano affrettate a rivestire le tane per il sonno invernale. Poi ottobre aveva portato le nuvole sulle vette e novembre la pioggia sottile e insistente e un fumigare malinconico di nebbie nei valloni e nei boschi con i faggi e gli ontani spogli di fronde.

Compiuto l’orifiamma dai colori dell’aurora, Hilde conservava tuttavia il suo sorriso lieve e il suo guardare limpido; non tradiva punto l’affanno che a volte le serrava il cuore. Molti teli bianchi aveva tessuto dopo lo stendardo e le faccende di casa erano procedute con esemplare regolarità. Ogni giorno Hilde aveva recato parole di conforto alle spose di alcuni fanti partiti con Sigmondo e ogni malato aveva ricevuto la medicina del suo sorriso. Ma che triste furono Natale e Capodanno!

A primavera il torrente ricominciò a spumeggiare tra le rupi finché una notte il picchio fece risuonare il suo toc-toc sui tronchi delle piante i cui rami rinverdivano. Allora Hilde percepì che l’attesa sarebbe stata lunga e che la sua speranza doveva sommare tutte le speranze, il suo dolore diventare necessario per il bene altrui, la sua fede farsi pura e immortale come le montagne.

Una mattina, la giovane sposa ripose l’orifiamma nella cassapanca, dette ordine alle cose, affidò le cure materiali al fidato famiglio e, sempre vestita di bianco, prese a salire la montagna rocciosa. Spesso sedeva su una rupe per lunghe ore porgendo l’orecchio per udire se il vento non recasse un risuonare di corno. Poi riprendeva l’ascesa cogliendo qualche fiorellino. La bionda Hilde prese a vivere sulla montagna che diventò la sua casa. Non aveva bisogno di nulla; l’acqua delle sorgenti bastava alla sua sete, i frutti del bosco erano sufficienti per sfamarla.

Si avvicendarono le stagioni e nel paese nessuno più ricordava un Sigmondo partito con le schiere dei baroni e una Hilde andata sposa ridente in una primavera lontana. Ma i paesani parlavano di una fata biancovestita, i capelli fluenti d’oro, che sedeva sulla soglia di una piccola grotta rivolta a valle a guardare semmai comparisse un bel cavaliere e il vento recasse un suono di corno festoso. Quando un predatore stava per piombare sulla preda, la fata occultava l’agnellino o il capriolo o lo scoiattolo; quando un fulmine stava per colpire, lo dirottava sopra la rupe; deviava anche la grandine, la furia del vento, le acque impetuose, le frane o le valanghe perché non danneggiassero il paese. In caso di pericolo lanciava un grido di allarme e la gente poteva mettersi in salvo.

I paesani finirono per chiamare “Dama Bianca” la montagna sulla quale abitava la bionda Hilde, divenuta fata benefica nella sua incrollabile speranza e dal cuore ardente per il prossimo come un’eterna lampada votiva.


La parabola – raccolta in Val d’Aosta – termina precisando: «Ancora oggi la Dama Bianca aspetta. O presto o tardi, o in questa vita o nel tempo che non ha fine, un lungo suono festoso squillerà nella valle e il forte cavaliere Sigmondo farà ritorno al suo fedelissimo amore». Secondo la tradizione, la Dama Bianca era una figura femminile misteriosa, associata alla protezione dei viandanti e degli animali nei boschi montani. La leggenda narra che questa figura apparisse a coloro che si smarrivano nella nebbia o tra i sentieri del bosco, in particolare pastori, bambini o viaggiatori impauriti.