A cura di don Vito De Vido (3ª domenica di Avvento - anno A)

È il narciso il primo fiore a sbocciare

Beati coloro che non trovano inciampo nelle mie parole

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In primavera il primo fiore a sbocciare tra quelli coltivati è il narciso. Lo ritroviamo nella prima lettura: la profezia di Isaia ci invita a rallegrarci di quello che il Signore sta per fare, fiorisce la steppa, verdeggiano le zone aride, fioriscono come sboccia il fiore del narciso. Il narciso fa parte di quei fiori che nascono da bulbi, come i tulipani, che vanno piantati in autunno, prima che geli il terreno. Esso rimane nascosto nella profondità della terra, muto e apparentemente abbandonato a se stesso. Sopporta la brina dell’autunno, le gelate invernali e tutti i lunghi mesi freddi. Ma non appena i raggi del sole cominciano a farsi più forti, dopo che la neve si è sciolta, non appena il terreno comincia ad ammorbidirsi il fiore di narciso spunta con vigore, cresce in fretta e ci regala la sua corolla indicandoci che la primavera è arrivata.

La Chiesa, nella sua lunga storia, ha conosciuto primavere di fioriture abbondanti: fiori di santità che sono passati attraverso il martirio dei primi secoli, la stagione del monachesimo benedettino che ha dato il volto alla nostra Europa cristiana, quella della povertà gioiosa del francescanesimo, e infine quella dei grandi santi della carità verso le masse popolari che si è tradotta in ospedali, scuole, iniziative per gli ultimi. In mezzo a tutta questa primavera abbiamo conosciuto anche l’arsura di una fede vissuta in modo superficiale, e anche i momenti in cui il Vangelo si è trasformato in una spada per mettere a morte i nemici piuttosto che per difendere gli oppressi. E sì, abbiamo conosciuto, lungo i secoli anche gli anni bui e vergognosi degli scandali, anche in chi guidava la Chiesa a nome di Cristo. Eppure i bulbi piantati nelle stagioni che sembravano finite (come l’autunno), arrivato il loro tempo sono stati capaci di bucare la terra arida e fiorire in tutta la loro bellezza.

In questa domenica, terza di avvento, che prende il nome dalla prima parola dell’antifona d’ingresso: «Gaudete», cioè «Rallegratevi», anche noi siamo chiamati a condividere la gioia di una promessa che Dio ha mantenuto: Egli ha mandato in mezzo a noi il Salvatore affinché possiamo gioire per la vita nuova che Egli è pronto a donarci.

Anche san Giacomo, nella seconda lettura, riprende l’immagine dell’agricoltore, che deve essere paziente, perché la terra non produce tutto e subito. La sapienza contadina, che per il passato era maestra di vita, insegna la pazienza a chi non ce l’ha, la costanza a chi si scoraggia, la fiducia in Dio per ottenere stagioni favorevoli, il senso di gratitudine per un raccolto che la terra ha prodotto, e non solo il sudore della fronte di chi l’ha coltivata.

Anche per noi è importante non perderci d’animo, quando ci sembra che non ci siano vocazioni, che le parrocchie si impoveriscano di iniziative, che le chiese si svuotino, e che le nuove generazioni mal digeriscano l’invito ad attendere la presenza del Signore, come la terra attende lo sbocciare dei fiori a primavera.

A volte, capita che le mani vecchie e stanche, che in autunno hanno seminato, non riescano a raccogliere i fiori in primavera: ma ne potranno godere altri, e poi altri ancora, fedeli al gesto di coloro che seminano senza pretendere di vedere il frutto di ciò che hanno piantato.

Non ha fatto, forse, così anche il Signore? Non ha chiamato a sé dodici uomini perché rimanessero con Lui? A loro ha affidato il Vangelo, e neppure essi hanno potuto vedere ciò che quella lontana seminagione ha prodotto. E noi, vogliamo essere meno fiduciosi di loro nel piantare e seminare? Il Signore ha fatto conoscere agli apostoli i germogli del Regno appena cominciato: i malati guariscono, i morti risorgono, ai poveri è annunciato il Vangelo, ma il segno più grande è questo: non inciampare negli ostacoli della vita e di questo mondo, ma trovare in Lui la gioia per continuare a riconoscere la sua Presenza in mezzo a noi.