Pagine di storia della Chiesa

La riflessione spirituale sulla morte

Per più di un millennio ci si sentì perfettamente a proprio agio in questa familiarità fra vivi e morti

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La cogitatio mortis, cioè la riflessione spirituale sulla morte, nacque tra gli scrittori della Chiesa antica, lungo l’Alto Medioevo fu coltivata solo all’interno dei monasteri, quindi insegnata e diffusa in settori sempre più ampi del popolo cristiano da parte degli ordini mendicanti nel Basso Medioevo.

Fin dai tempi dei Padri della Chiesa antica troviamo familiare la meditazione sulla morte. La drammatizzazione della morte e l’appello alla salvezza personale sono temi intrecciati tra loro nella predicazione dei Padri della Chiesa.

San Basilio Magno (330-379), di ritorno dall’Egitto ove aveva fatto esperienza ascetica con i monaci, venendo interrogato da un uomo di studio su quale fosse la definizione della filosofia, gli rispose: «la prima definizione di filosofia è la meditazione sulla morte»; in altra occasione San Basilio disse a due filosofi alquanto pedanti: «la vostra filosofia sia la continua riflessione sulla morte».

Sant’Agostino (354-430) ebbe a dire circa la morte: «È grazie alla sua grande misericordia che Dio ci ha lasciato ignorare il giorno della nostra morte, perché pensando ogni giorno di poter morire vi diate cura di convertirvi». Sant’Agostino insegna la necessità di fare della vita una preparazione alla morte. Cosicché la morte non è realtà che deve essere subita come un’evenienza ineluttabile, ma alla quale ci si deve preparare con un allenamento continuo. E se ben si considera, il comune appello dei Padri a rivolgere costantemente l’attenzione al proprio giorno ultimo, riprendeva la raccomandazione che si trova nella Sacra Scrittura, libro del Qoelet: «In tutto quello che fai ricordati della tua fine e non peccherai mai».

Nella sua regola, San Benedetto detta questa raccomandazione: «temere il giorno del giudizio; aver paura dell’inferno; desiderare la vita eterna con ardore; avere ogni giorno davanti agli occhi la realtà e l’eventualità della morte». Insomma la meditazione sulla morte non può essere disgiunta dal fine al quale essa conduceva: il risveglio del senso di responsabilità circa il proprio destino eterno, e quindi l’esame di coscienza sulla propria vita. Così la tradizione spirituale monastica aveva trasformato la paura naturale della morte in paura religiosa del giudizio e l’accento era posto sulla seconda paura, la prima non era che un mezzo al fine. In sintesi: nell’esperienza spirituale monastica si era consolidata una cogitatio mortis, che era un vero e proprio allenamento non farsi cogliere impreparati da essa.

Nell’Alto medioevo questo patrimonio di abituale riflessione dei Padri della Chiesa venne tenuto vivo solo nel chiuso dei monasteri. Non vi è una predicazione che diffusamente esorti alla responsabilità individuale circa la preparazione alla morte. La morte era percepita familiare, vicina, un fenomeno ineluttabile; insomma l’uomo subiva con la morte una delle grandi leggi della specie e non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla.

Un particolare aspetto è la coesistenza dei vivi e dei morti come fenomeno nuovo e sorprendente rispetto all’antichità pagana e cristiana. Nell’antichità la città dei vivi doveva essere separata da quella dei morti per impedire ai defunti di turbare i vivi. Nel corso del IV secolo andò diffondendosi l’usanza di farsi seppellire “ad sanctos”, cioè nei pressi di quelle chiese, in cui erano custodite le reliquie dei martiri. Con l’allargarsi dei perimetri urbani, non ci fu più distinzione tra i sobborghi dove si seppelliva vicino ai santi e la città. I morti penetrarono così nel centro storico delle città e i cimiteri divennero, con il passare del tempo, asili e rifugi, luoghi d’incontro e di riunione, per i commerci, per le danze e per i giochi: un caso emblematico è dato dal vasto cimitero degli Innocenti di Parigi. Così, per più di un millennio ci si sentì perfettamente a proprio agio in questa familiarità promiscua fra vivi e morti.

don Claudio Centa
(2 – continua)

 

Nella foto: Albrecht Dürer, San Girolamo nello studio, 1521, Lisbona, Museo Nazionale di Arte Antica.
Il dipinto raffigura uno dei più grandi Padri latini della Chiesa che riflette sulla morte. Il suo sguardo verso lo spettatore è un invito a praticare tale riflessione, come considerazione della caducità che deve portare ad alzare lo sguardo a Cristo crocifisso e alla salvezza da lui offerta. Il dipinto è inoltre una delle testimonianze iconografiche della riflessione sulla morte, assai presente nel Rinascimento.