Storia del Giubileo - 12

Nascono le confraternite per l’accoglienza dei pellegrini

Per dar da mangiare ai pellegrini si impiegarono 978 quintali di grano

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L’anno santo, lo abbiamo visto nella precedente puntata, innescò uno sviluppo delle strutture ricettive a Roma e anche i privati cittadini ne approfittavano per fare guadagni dando ricetto a pellegrini in qualche ambiente delle loro case. Ma bisogna subito aggiungere che era pratica assai diffusa tra i fedeli di Roma l’accoglienza e la cura caritatevole e gratuita dei pellegrini che giungevano in città. Si trattava di una prassi praticata fin dall’antichità. Un testimone insospettabile è l’imperatore Giuliano l’Apostata (360-363), che contrastò aspramente il Cristianesimo. Egli afferma che una delle principali opere assistenziali degli Chiesa era l’accoglienza degli stranieri, praticata in edifici detti xenodochia (letteralmente: “case per stranieri”). Crescendo progressivamente il numero di pellegrini che si recavano a Roma, queste istituzioni si specializzarono soprattutto nella loro accoglienza. Il più antico xenodochio di cui abbiamo notizia ci è testimoniato da san Girolamo che in una lettera indirizzata nel 397 al senatore Pammacchio si congratula con lui per aver organizzato una casa per accogliere pellegrini. Non è il caso che faccia qui una rassegna completa; ricordo solo che Papa Simmaco (498-514) organizzò tre “pauperibus habitacula”, uno presso ciascuna delle tre principali basiliche: San Pietro, San Paolo e San Lorenzo. Essi non davano soltanto assistenza ai poveri, ma anche accoglienza ai pellegrini. Dal senatore Pammacchio (397) sino a papa Leone III († 816) si conta in Roma la nascita a organizzazione di 14 case per accogliere gratuitamente pellegrini e stranieri di passaggio; la metà di questi erano di fondazione papale e gestiti quindi dalla Chiesa di Roma.

Nacquero anche xenodochi nazionali, le scholae. Esse erano costituite per lo più da regni del nord Europa per l’assistenza dei connazionali che venivano a Roma. Il primo fu fondato nel 726 da Ina, re del Wessex (vasto regno inglese), che due anni dopo abdicò e con la sposa si recò a vivere in quell’istituzione per l’accoglienza di pellegrini Sassoni. Si trasformò poi nell’attuale Santo Spirito in Sassia.

La maggiore opera assistenziale per pellegrini al tempo dei giubilei si sviluppò a partire dall’anno santo del 1550. L’iniziativa si deve a san Filippo Neri che nel 1548 decise di fondare con i giovani che si incontravano con lui una confraternita a scopi assistenziali. Il vescovo Filippo Archinto, vicario per la diocesi di Roma, consigliò subito san Filippo di preoccuparsi dell’accoglienza dei pellegrini. Nell’imminente anno santo del 1550 i confratelli non poterono metter in piedi opere materiali notevoli, ma si impegnarono ad accogliere gratuitamente nelle loro case i pellegrini. Negli anni seguenti la confraternita fissò la sua sede nella chiesa di San Benedetto in Arenula, che venne ricostruita e prese il titolo di S. Trinità dei Pellegrini. Presso la chiesa fu costruito un ospizio assai capace, che tuttavia non fu sufficiente a far fronte al gran numero dei pellegrini, cosicché si poté provveder grazie alla generosità di alcune famiglie nobili che fecero dono alla confraternita di alcuni stabili. Dai documenti risulta che durante l’anno santo 1575 la confraternita ospitò oltre 170.000 pellegrini, all’incirca il 40 % del totale.

Si hanno maggiori particolari sull’attività della confraternita per il giubileo del 1600. Per dar da mangiare ai pellegrini si impiegarono 978 quintali di grano, 556 ettolitri di vino, 3030 libbre di carne. Il pane, il vino e la carne incisero nella misura dell’80% delle spese. Queste furono coperte per il 20% da elargizioni personali del papa Clemente VIII, le offerte di privati coprirono il 57%. Nel refettorio c’erano 360 posti a sedere e si dava da mangiare una volta al giorno, la sera, cioè quando i pellegrini rientravano dalle loro pratiche di pietà. La pietanza consisteva in una minestra, un piatto di insalata, mezza libbra di carne bollita, una pagnotta ed un boccale di vino; per i sacerdoti si aggiungeva un piatto di noci e fichi, mentre nei giorni di magro, che non erano pochi, la carne era sostituita da pezzi di tonno o da un’arringa.

Durante il giubileo del 1650 la confraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini assicurò assistenza ed ospitalità a circa 300.000 pellegrini sugli oltre 700.000 che in quell’anno giunsero a Roma. Sulla sua scia intanto erano sorte altre confraternite che condividevano la medesima finalità assistenziale.


DIDASCALIA: Giuseppe Vasi, Santa Trinità dei pellegrini, in Le Magnificenze di Roma antica e Moderna, vol. IX, I Collegi, Spedali e luoghi pii, Roma 1759.