A cura di don Renato De Vido (33ª domenica del tempo ordinario - Anno A)

Amministratori di talenti

Dio che ha creato te senza te, non salverà te senza di te

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Con questa parabola Gesù si è imposto anche nel linguaggio, non soltanto nell’annuncio del regno di Dio. Oggi, se si dice che uno “ha talento”, gli si fa una lode; e l’origine dell’espressione sta proprio in questo racconto vivace fatto dal Signore. Non si sa che il talento era una unità di misura che serviva anche per l’argento e l’oro; ma nei secoli è passato un modo di dire così efficace.

1. Tutto prende il via da una distribuzione diseguale del capitale. I servi prendono dalla mano del padrone quello che egli ha destinato a ciascuno, e sanno che è molto. Il talento, infatti, corrispondeva al salario di circa 30 anni di lavoro. Nello stesso tempo, i servi diventano amministratori a tutti gli effetti di quella somma ingente; ne dispongono a seconda della capacità, dando prova della fiducia riposta in loro.

Si delinea così la fisionomia di ogni uomo: un buon amministratore, o viceversa un timoroso.

Guardare quello che si ha tra le mani: esame di coscienza necessario per valutare le possibilità anche spirituali ed umane. Uno scopre di avere tanta salute; un altro di avere predisposizione per il lavoro; un altro che sa fare opera di pace; un altro che è dotato di umorismo, un altro che ha capacità intellettuali; un altro che ha bellezza e prestanza fisica. È proprio variegato il panorama delle nostre doti. Tutto sta a rendersene conto senza vantarsene indebitamente: “fallace è la grazia e vana la bellezza”, ha ammonito il libro dei proverbi.

2. Valutare le proprie capacità, però, è anche orientarle. Da un lato fa sempre una figuraccia di fronte al mondo chi impigrisce, senza darsi da fare; dall’altro ci può essere il pericolo di abusare dei doni naturali.

L’abuso è un uso smodato, oppure una “fare da padroni” della propria vita, senza nessuna preoccupazione del rendiconto finale. Basta l’esempio di chi mette la propria intelligenza a servizio di scopi cattivi, delinquenziali, criminali; o di chi esagera con la propria salute, pensando che la natura non presenti il conto anche di questo.

Non vi pare che avremmo bisogno di maggiore moderazione, della virtù della temperanza e dell’umiltà verso se stessi? La lode a Dio sale da un impiego sapiente delle proprie capacità.

3. Il discorso si allarga infine alla domanda iniziale: che cos’è il regno dei cieli, e come vi si entra. Non è ricorrente, nel vangelo, che gli uditori del Maestro vogliano sapere esattamente cosa intende per “Regno, Regno di Dio, Regno dei cieli”? Da parte sua, Colui che ne parla mette addosso una salutare inquietudine perché ci si dia da fare per farne parte.

La risposta – generica, ma sufficiente ad acquietare le domande – potrebbe essere qui: è stare dalla parte di Dio, scegliere di collaborare con Lui secondo quello che ci è dato.

Il servo che ha saputo fruttificare molto era colui che non ha perso di vista il padrone, anche se lontano e assente; è stato intraprendente e nello stesso tempo motivato in maniera giusta: “lo faccio perché questo tesoro mi ricorda colui che me lo ha consegnato”.

Il regno dei cieli, insomma è la nostra umanità che si consegna generosamente al Signore. Consapevole che “Dio che ha creato te senza te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino).