In previsione dell'assemblea sinodale del 18 e 25 settembre 2021

“Chiesa sinodale: una Chiesa di tutti”

Il principio del Diritto romano a cui la Chiesa si ispirò per elaborare regole di fede, indicazioni di vita e norme di comportamento comuni a tutti

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«Ciò che riguarda tutti deve essere trattato e approvato da tutti». È davvero interessante questo principio del Diritto romano a cui, nel Medioevo, la Chiesa si è ispirata per darsi un metodo al fine di elaborare regole di fede, indicazioni di vita e norme di comportamento con il concorso di tutti. Si sentiva l’esigenza che l’insieme della Chiesa fosse coinvolto, perché a tutti veniva riconosciuta la stessa dignità di “discepoli del Signore”. È una forma del “camminare insieme” che Gesù stesso ha perseguito e per cui è stato maestro e formatore di coloro che aveva chiamato a condividere con lui la dedizione al “Regno di Dio” e che avrebbe, poi, inviato come suoi testimoni e apostoli.

Ma a questo stile e a questa impostazione delle origini noi siamo rimasti fedeli?

Certamente nella complessa vicenda della Chiesa riscontriamo tante contaminazioni e defezioni che possono oscurare la sua testimonianza. A un certo punto una sensibilità socio-culturale, anch’essa ispirata al Medioevo, ha purtroppo prodotto quella che papa Francesco – con un’immagine molto plastica ed efficace – ha chiamato “una Chiesa piramidale”. Si comprende immediatamente che ci si riferisce ad un modo di essere Chiesa al cui al vertice c’è un capo come se tutto dipendesse da lui. Papa Francesco rileggendo la stessa immagine a partire dal Vangelo, si immagina una Chiesa che sia come “una piramide rovesciata”. In questa altra immagine il vertice si trova al di sotto della base. E chi, dunque, esercita l’autorità non comanda, ma diventa “ministro”, ossia il più piccolo tra tutti.

Sono inequivocabili le parole di Gesù con cui ha inteso tracciare uno stile di vita per i suoi discepoli: «Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20,26s). Questa consegna di Gesù riguarda i rapporti che siamo invitati a ripensare, a ricostruire tra tutti noi. Il suo invito è al futuro, poiché non è scontato per nessuno dei discepoli. È necessario immaginare la nostra vita continuamente esposta a tale novità dei nostri rapporti.

Per questo diventare “Chiesa sinodale” è avvicinarci al Vangelo di Gesù, è lasciare che esso attraversi e penetri tutto lo spessore di ciò che siamo e facciamo, è ristabilire la dignità di ciascuno. Ci sono richiesti tanto coraggio evangelico e un tirocinio di libertà interiore per ricomprendere l’esperienza di essere parte viva di una comunità ecclesiale come la parrocchia, come la diocesi. Quel “tutti” con cui sempre confrontarci non è questione di numeri da raggiungere. È la “forma” della gratuità e della responsabilità dell’amore. Potremmo azzardare un’ulteriore affermazione: è la forma che Cristo va assumendo nella sua Chiesa.

Non c’è una tattica di popolarismo o di democraticismo da assumere e applicare nella Chiesa e, dunque, nella vita delle nostre comunità parrocchiali e dei nostri gruppi pastorali. Tutto questo sarebbe travisare il valore della sinodalità. Che tutti possano prendere la parola e possano comunicare quanto vivono, ciò che pensano e quello che desiderano, è fedeltà a Cristo. È accogliere il dono di essere stati chiamati da lui. È generare libertà in noi. È “farsi prossimo” per imprimere energia nuova di rigenerazione nella nostra vulnerabile e assetata umanità. Promuovere la possibilità che tutti possano donare il loro consenso è diventare realmente “Popolo di Dio in cammino”.

Avvicinandoci all’Assemblea sinodale è importante alzare lo sguardo, non giungervi da sconfortati e delusi, come portassimo con noi soltanto pesi e vuoti. Il desiderio e l’impegno a coinvolgere tutti nel “camminare insieme” può aprire e segnare una stagione nuova di annuncio del Vangelo. È una Chiesa che si lascia rigenerare.

+ Renato, vescovo