«Che cosa ti ha colpito di più?», chiediamo a due conoscenti incontrati sul sagrato, dopo la solenne celebrazione di apertura del Giubileo nella nostra diocesi. Uno, il più giovane, risponde: «Il profumo dell’incenso»; l’altro invece: la comunione con un’ostia che sapeva di pane, oltre che con il vino. Le due impressioni incuriosiscono, perché fanno riferimento a due sensi che solitamente nelle celebrazioni sono messi a tacere: il gusto e l’olfatto. Eppure i due interlocutori sono stati colpiti da questo.
Il profumo dell’incenso ha accompagnato la processione dalla chiesa di Santo Stefano fino alla soglia della Cattedrale. La comunione sotto le due specie, se anche ha prolungato un po’ il rito, ha colpito per la sua novità. Plauso a chi ha curato la liturgia fin nei dettagli: i ministranti, i cantori del coro diocesano, l’organista, sotto la sapiente regia di don Alex Vascellari. Era probabilmente dai tempi precedenti la pandemia che la nostra Cattedrale non era così gremita di fedeli. Tra di essi anche parecchi giovani. E poi una cinquantina di preti, i diaconi, i ministranti.
Nella chiesa di Santo Stefano la celebrazione è iniziata nel canto, con le parole che il teologo Pierangelo Sequeri ha composto per l’Inno del Giubileo: «Fiamma viva della mia speranza questo canto giunga fino a te». Poi la lettura di un passo della bolla di indizione del Giubileo e quindi il cammino verso la Cattedrale, tra le vie del centro cittadino, sotto sguardi incuriositi o perplessi di gente che percorreva le stesse strade. Davanti alla porta della Cattedrale, infine, si è avuto un bel colpo d’occhio sulla folla convenuta. Il Vescovo ha presentato a tutti la croce, «àncora di speranza per tutti». E poi al suo seguito tutti sono entrati nel tempio.
Nell’omelia il Vescovo ha richiamato il senso del Giubileo.
«…siamo partiti da Lui, venuto per “proclamare l’anno di grazia del Signore”. Abbiamo iniziato il cammino dopo le sue parole in risposta a Tommaso: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio”».
Nella chiusa ha voluto chiarire il senso dell’indulgenza, «una parola bisognosa di essere purificata e va sperimentata come vita rigenerata da Dio». E ha precisato:
«“Chiedere l’indulgenza” è un atteggiamento di dignitosa umiltà che ci fa confidare nell’aiuto altrui; è la possibilità di ritrovare fiducia in noi stessi e negli altri per rialzarci da ogni caduta; è la speranza di cui farci pellegrini perennemente perché la nostra vita conta assolutamente per Dio, come dice il libro della Sapienza: “Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» (1,14); è ritenere che la nostra salvezza è sempre la salvezza degli altri».
Prima di concludere con la benedizione, il Vescovo ha invitato la Diocesi a progettare una cura pastorale dei reclusi nella casa circondariale di Baldenich, dove spesso «conducono una vita che non è vita». Un’attenzione di cui sarà presto interessato il Consiglio pastorale diocesano. Anche questo nello spirito autentico del Giubileo, che Gesù ha fatto suo nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è sopra di me… mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione… a proclamare l’anno di grazia del Signore». Da lui siamo partiti.