A cura di don Renzo Roncada (5ª domenica di Quaresima - anno A)

Dio non è d’accordo con la morte

Un Dio che piange la morte dell’amico, che non nasconde i propri sentimenti, che non si vergogna di apparire umano

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Dio non è d’accordo con la morte. Il Vangelo di Lazzaro ce lo ha assicurato. Betània ancor oggi si chiama “Casa dell’amicizia”. Gesù è venuto per tutti, non ha mai rifiutato nessuno e ci vuole tutti come amici. Coltiva il sentimento umano dell’amicizia. C’era una casa di gente facoltosa a Betània, dove il Maestro si rifugiava volentieri. Lì poteva godere la compagnia di alcuni intimi: Lazzaro, Marta e Maria. Un’amicizia tanto profonda e delicata da non aver bisogno di troppe parole: «Signore, ecco, colui che ami è malato». Una notizia scarna, senza alcun commento, ma sufficiente per mettere al corrente Gesù della situazione. Un’amicizia tanto grande che autorizza Marta a rimproverare Gesù: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto». Per poi aggiungere con audacia: «ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Quasi a dire: “So che sei un vero amico e quindi mi posso fidare di te, sono sicura che farai tutto quello che potrai”.

E Cristo si aggancia proprio a questa dichiarazione di Marta per condurla a fare esplicitamente quella professione che rende possibile il miracolo: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». E la donna si affretta ad assicurare il Maestro: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Come si vede un’amicizia che, senza perdere nulla in fatto di spontaneità, confidenza, sa riconoscere, attraverso lo sguardo della fede, la vera identità dell’amico.

Ma c’è ancora un particolare nel racconto, che sottolinea la grandezza del sentimento di amicizia umana di Gesù. Infatti mentre si avvicina al sepolcro, «Gesù scoppiò in pianto». Direi che bastano queste lacrime. Un Dio che piange la morte dell’amico, che non nasconde i propri sentimenti, che non si vergogna di apparire umano. Per me anche le lacrime sono un grande miracolo. Anche poco prima, di fronte al pianto di Maria e degli amici che lo attorniavano, Gesù: «Si commosse profondamente e si turbò». Due verbi che rendono il Maestro assai vicino alle nostre angosce, al nostro sgomento di fronte al dolore, alla nostra reazione contro la morte. Neppure Cristo è d’accordo con il male. Neppure lui si rassegna alle separazioni. Da un Dio che ama in quella maniera tanto “umana”, c’è da aspettarsi di tutto in favore dell’uomo. Al sepolcro Gesù si avvia non come un essere al di sopra delle debolezze dei comuni mortali, ma «profondamente commosso». È soltanto dopo essere stato in comunione con la nostra debolezza, che ritrova il tono imperioso del comando: «Togliete la pietra».

Ma seguiamo la conclusione della narrazione: «Gesù, ancora una volta commosso profondamente gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”». Quel grido imperioso è rivolto a ciascuno di noi. Cristo non si rassegna ai nostri sepolcri, alle nostre scelte di morte. Lui ci chiama fuori. Fuori dalla prigione in cui ci rinchiudiamo volontariamente, accontentandoci di una vita priva di ideali, spoglia di veri valori. Quella voce ci impone di camminare togliendoci quelle bende che ci hanno messo addosso.

La risurrezione comincia quando, ubbidendo a quel commando, decidiamo di uscire alla luce, alla vita, cioè quando dalla nostra faccia cadono le maschere e ritroviamo il coraggio del nostro volto originale.

Siamo vicini a Pasqua. Pensiamo allora a quale vita dobbiamo risorgere, prima di morire materialmente.

 


Nell’immagine:
Affresco della Risurrezione di Lazzaro (Scuola campana-cassinese sec. XI) – chiesa di San Angelo in Formis, Capua