Per quanti nel 1978 avevano l’età della ragione, furono giorni indimenticabili: chi scrive rivive un po’ di quell’emozione, ogni volta che tra i tetti del paese avverte quel festoso scampanio, come in quella sera di fine agosto, quando il nostro “don Albino” divenne Giovanni Paolo I. Quarantaquattro anni dopo la beatificazione consegna ufficialmente la sua memoria agli onori dell’altare.
Tuttavia in questi decenni la memoria collettiva è stata in qualche modo annebbiata da tre “stonature”, che spesso hanno deviato l’attenzione: anzitutto la letteratura “noire”, che sulla repentina morte ha ricamato e lucrato con il solito espediente del sospetto; in secondo luogo, i cliché che hanno ritratto il nostro conterraneo con semplificazioni impoverenti, prima fra tutte quella di “Papa del sorriso”; in terzo luogo, il dilagare dell’aneddotica, di cui siamo stati tempestati e che spesso torna nei racconti di questi mesi.
Per questo, tra i principali meriti della Causa di canonizzazione c’è quello di aver rimesso al centro dell’attenzione la sua figura di uomo di Chiesa e soprattutto il suo magistero, quello dei 34 giorni di pontificato come quello precedente. Non è un caso che il primo lavoro pubblicato dalla Fondazione Vaticana sia stato dedicato al magistero papale di Luciani, per restituire al pubblico l’ampiezza di un programma di pontificato appena abbozzato, ma già pienamente avviato; per riconsegnare la freschezza di una predicazione semplice, ma intensa e talora ardita; per risarcire le correzioni e le omissioni – curiose e spesso strategiche – che dopo la morte erano intervenute nelle edizioni ufficiali. Le più intriganti sono il saluto ai «Patriarchi delle Chiese orientali», che il Papa non dimenticò nell’omelia del 3 settembre, ma che venne espunto dagli Acta Apostolicae Sedis; identico destino per il commosso ricordo del metropolita russo Nikodim, che era morto tra le sue braccia il 5 settembre; e infine la speciale menzione del «noi di Chiesa» nell’esame di coscienza dell’ultima udienza del 27 settembre, quando il Papa si chiedeva se «abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». Restituire integrità e fedeltà alle sue parole era un atto importante e dovuto. Rimettere il suo magistero al centro dell’attenzione è il frutto più gustoso del processo di canonizzazione.
Questo è iniziato nel 2003, cinque lustri dopo la morte, perché le precedenti e pur autorevoli istanze non avevano trovato in alto l’atteso interessamento. Come ha sagacemente notato Luigi Accattoli, «il riconoscimento della sua santità ha chiesto più tempo rispetto sia al predecessore Montini, sia al successore Wojtyla», perché nella Chiesa non c’è mai stata una «corrente lucianea», capace di sospingere il carro insieme alla nostra piccola diocesi; non c’è mai stato chi volesse canonizzare la sua linea di governo, «dal momento che il suo governo finì prima d’iniziare». Inoltre al suo processo canonico non è stato scontato alcunché. Ma ora, alla fine di tanto impegno, possiamo orgogliosamente assaporare la meta raggiunta, perché tutto è stato fatto con scienza e coscienza. E questo è un valore aggiunto al lavoro e al traguardo stesso.
Giova, in questi giorni, ritornare all’intuizione e alla lungimiranza con cui mons. Vincenzo Savio volle dare inizio a questo percorso. Poiché alla nostra indole montanara piace crogiolarsi nella lamentazione, come un buon padre egli ci suggerì di riscoprire i nostri tesori: prima l’arte delle chiese di montagna, per le quali avviò un’attività di valorizzazione e di restauro; ma c’era un altro tesoro da riscoprire, cioè le tracce di santità che son fiorite nelle comunità parrocchiali di montagna. Il cammino di “don Albino” era sicuramente il più evidente.
Inoltre – senza sterili nostalgie – è doveroso ricordare anche il background, nel quale affondano le radici della santità di Giovanni Paolo I. Ricordiamo la vitalità della sua parrocchia di origine in quei decenni, in cui venne guidata da parroci illuminati: don Antonio Della Lucia, formatore dei formatori di Luciani, e don Filippo Carli, maestro del futuro beato. Fu lui che gli insegnò l’obbligatorietà di un linguaggio comprensibile, istanza che per Luciani fu una stella polare fin nelle udienze della Sala Nervi. E se don Filippo diede al futuro vescovo e papa l’imprinting pastorale, vanno ricordati anche i vescovi Bortignon e Muccin e i superiori del nostro Seminario, che sul giovane prete agordino investirono e scommisero, incoraggiandolo a prepararsi ai passi futuri, che nessuno avrebbe allora immaginato. È quanto la diocesi di Belluno-Feltre porterà a Roma, davanti alla Chiesa universale, con gratitudine. E saranno ancora giorni indimenticabili.
don Davide Fiocco