Nel pomeriggio di domenica 7 marzo

Gli Amici di padre Romano Bottegal in assemblea

I rapporti tra Lamon e Baalbeck, dove visse l’eremita nato a San Donato nel 1921

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Una ventina di persone su YouTube e altrettante in presenza: nell’epoca della formazione “blended”, mista, e della didattica digitale integrata, anche l’assemblea degli Amici di padre Romano Bottegal si è tenuta in presenza e assieme on line nel pomeriggio di domenica 7 marzo. Non è però l’assemblea di un club, ma un incontro aperto a tutti; in chiesa a Lamon c’è Maria Luisa Bolge che modera la sessione e fa la cronistoria dei rapporti tra Lamon e Baalbeck, dove visse l’eremita nato a San Donato nel 1921. Dopo la visita di tre lamonesi nel 2004, nell’autunno 2019 il pellegrinaggio si è ripetuto e ha incontrato Louise A. Sater, avvocato libanese, che si è incuriosita alla figura di padre Romano e ha cominciato a ricercare testimonianze su di lui. Louise vive fra il Libano e Ravenna, dove lavora nella cooperazione internazionale; nel febbraio 2020 è venuta a San Donato e il suo interesse nei confronti del venerabile è aumentato ancora; ha incontrato a Vitorchiano suor Gabriella, attuale postulatrice. E a Louise si deve l’incontro con suor Rita Haddad, che aveva assistito tante volte padre Romano.

«Dopo aver trovato il numero di telefono e prima di chiamarla, ero un po’ ansiosa; non sapevo quale sarebbe stata la sua reazione. L’ho sentita rispondere con gioia, emozione e interesse. Era felice di dire tutto quello che sapeva». «Suor Rita aveva lasciato Jabbouleh dopo quegli anni e aveva costruito al Nord un convento, dalle fondamenta – continua Louise Sater – è una suora di origini giordane determinata e gentile, molto entusiasta per padre Romano», per cui è pronta a fare tutto il possibile perché arrivi all’altare della santità. La sua vita si è intrecciata con quella del Venerabile: era a Jabbouleh, dove era stata destinata giovanissima, quando vi è arrivato padre Romano, e ha aiutato a portare l’acqua per il cemento con cui fare l’eremo. Di padre Romano conserva lettere, foto e documenti. Per lei è stato un santo, e dice: il Signore mi chiederà un giorno che cosa hai fatto per padre Romano.

E qual è il ritratto di questa santità secondo suor Rita? «Padre Romano – parla suor Rita per bocca di Louise Sater – era molto amato dalla gente del posto; i musulmani lo onoravano; incontrarlo portava benedizione. Passava il suo tempo a pregare e a meditare nelle Sacre Scritture. Prima di ammalarsi, ha detto che Gesù lo aveva chiamato e che doveva andarsene, e lei, suor Rita, non capiva». Nel suo racconto emergono fioretti che sembrano arrivare direttamente dall’epoca di san Francesco e dei suoi compagni: «il medico donna che ha curato padre Romano aveva la madre malata di cancro; tagliò una ciocca di capelli e la mise sul ventre della madre, che guarì».

La testimonianza di suor Rita precede quella di padre Hanna (Giovanni) Naddaf, un archimandrita che aveva il mandato da parte dell’arcivescovo di Baalbeck di visitarlo una volta al mese. È padre Hanna a descrivere, in un libro finora redito solo in francese, scritto con padre Michel Barakat, la povertà di Romano: «l’eremo, un parallelepipedo di mattoni, era stato diviso da padre Romano in quattro minuscoli vani di due metri per due l’uno; una cappella, una cucina, un magazzino, una stanza da letto». Tali le funzioni delle stanze, ma non gli arredi: «il suo letto erano assi di legno disposte su blocchi di cemento; la sua cucina aveva una lamiera su cui cuocere il pane e una pentola in cui bollire il riso; una vasca all’estremità del corridoio gli serviva per lavarsi». Era una persona pulitissima: senza una macchia i due abiti, la tunica che portava nella celebrazione della Messa e quando riceveva l’arcivescovo o qualche suo delegato; e l’abito da lavoro, cucito da se stesso. Viene da pensare alle baracche delle borgate romane descritte da Moravia nei suoi racconti e alla scelta del tutto controcorrente di farsi povero – papa Francesco direbbe: andare nelle periferie, abbandonando non solo il mondo, ma anche una congregazione di monaci per vivere da eremita.

Ma, per lasciar parlare ancora i testimoni libanesi di padre Romano «le religiose di Notre Dame del Bon Service volevano mandargli un po’ di cibo, ma egli aveva rifiutato; per la sua vita eremitica, diceva, doveva provvedere lui stesso ai suoi bisogni; anche il Vescovo voleva fornirgli pane, farina, riso; ma egli si manteneva con le offerte per le Messe, che del resto riceveva con qualche scrupolo perché, diceva, gli altri sacerdoti lavorano più di me».

Padre Romano dunque descriveva se stesso come eremita; e la sua vocazione eremitica la intendeva non nel senso contemporaneo di immersione nelle profondità del mondo, bensì egli di una vita eremitica che aveva per condizione la solitudine, ovvero tagliare le relazioni con il mondo: un eremitismo orientale, libanese, come san Charbel Maklouf. Padre Romano è vissuto nel ventesimo secolo ma la sua vita starebbe bene tra le antologie dei racconti della Tebaide o dei Padri del deserto: «la sua vita – continua Louise Sater – è stata segnata dallo spogliamento e dal raccoglimento spirituale. Passava il suo tempo nella meditazione e curando un giardino che circondava l’eremo. Gli ortaggi li dava ai vicini e alle suore; non li mangiava. Padre Naddaf gli propose di far arrivare l’elettricità nell’eremo e di installare una pompa nel corso d’acqua per far arrivare acqua alla vasca. Egli non aveva il diritto di prendere l’acqua, perché sarebbe stato attentare ai diritti dei contadini di là». Viene da immaginare padre Romano come il Davide biblico di fronte al Golia del land grabbing, dello sfruttamento del suolo, dei boschi, dei fiumi e di tutte le risorse nei territori più deboli, delle disuguaglianze sempre più marcate tra il Nord e il Sud del mondo: un italiano che evita di attingere l’acqua al fiume per depauperare la porzione riservata agli agricoltori. Nell’epoca dell’antropocene, quando i manufatti dell’uomo hanno superato quelli naturali, padre Romano dal silenzio del suo eremo –  e anche dal silenzio dell’oblio in cui è lasciata la sua figura – dice che l’umanità potrà salvarsi solo se si ritira da quanto ha conquistato…

Ma noi continuiamo a inframmezzare il discorso con commenti, senza lasciar parlare i testimoni: «la maggior parte delle volte – Louise continua a riferire del libro di padre Hanna – lo trovava in preghiera o intento a leggere o a meditare la Bibbia; se era in abito da lavoro, andava subito a cambiarsi. Non aveva saputo subito che aveva una licenza in teologia». Ed è ancora padre Naddaf a raccontare di come venne catturato dalla polizia siriana: «era stato accusato di spionaggio; venne trattenuto per una notte e subito liberato, con le scuse da parte del comandante: anche in quell’occasione egli era nella gioia e nell’allegrezza. Desiderava di essere maltrattato per essere accostato alle sofferenze del suo beneamato, il Cristo». Dopo l’incidente con la polizia siriana, «l’arcivescovo di Baalbeck andò a trovare padre Romano con padre Naddaf e trovarono un ufficiale siriano che era stato mandato dal comandante per scusarsi di nuovo. L’ufficiale disse: “ho viaggiato molto, ma nessuno mi ha colpito come questo monaco. Preghi per me”». E conclude: «tutta la sua vita era orientata verso Dio; nulla gli importava se non lui». E quelle relazioni che aveva tagliato con il mondo – richiesto di celebrare la Messa quotidiana alla comunità di suor Rita, dopo il diniego del sacerdote incaricato per la pericolosità della zona, infiltrata dai Siriani, aveva posto come condizione che sarebbe venuto in silenzio e tornato in silenzio – gli venivano restituite moltiplicate dalla stima dei contadini della zona, come è ovvio musulmani, che dicevano come Dio li stesse benedicendo per mezzo di padre Romano; dai sorrisi di stima che gli riservavano i bambini della scuola delle suore (che riuscirono a strappare a padre Romano il permesso di andare a trovarlo: non voleva, perché non aveva niente da dar loro, ma la superiora gli procurò caramelle e una cassa di Coca Cola, e così aveva qualcosa da regalare e li accolse all’eremo); dai malati con cui aveva condiviso la degenza negli ospedali di Baalbeck e di Beirout, dove è morto il 19 febbraio 1978, che dicevano come dal volto di padre Romano emanasse una luce fisica insieme e interiore.

E dal lontano Libano si riallacciano anche le relazioni con la famiglia di padre Romano e con il suo paese, abbandonato per sempre, e in modo repentino e drastico, dopo l’ordinazione sacerdotale a Feltre. Una suora libanese, suor Alexi, ha ascoltato da padre Romano questa testimonianza: «in fondo ho sempre obbedito a mia madre, che ha fatto fatica ad accettare la mia vocazione monastica ed eremitica, ma mi ha detto: o vieni come sacerdote al paese o santo altrove. Ora sto cercando di essere un santo eremita. Mia madre abbia l’anima in pace, sapendo che ho seguito i suoi consigli». Padre Romano si commuoveva sempre al ricordo di sua madre.

Nella chiesa di Lamon è già passata un’ora; Louise Sater, dopo aver narrato tutte queste cose, restituisce il microfono a Maria Luisa Bolge che ringrazia per la bella testimonianza. E proprio incentrato sulla testimonianza è la conclusione del parroco, don Giorgio Aresi, che invita il gruppo degli «Amici di padre Romano» a incentrarsi sulla testimonianza, per non cedere ad atteggiamenti, questi sì datati, di proselitismo o di apologetica.

don Giuseppe Bratti