Il tempo dell’Avvento, che oggi cominciamo, ci prepara al Natale. Siamo abituati a vivere questi giorni protesi a celebrare la nascita di Cristo. Ma se ci limitassimo a preparare il presepe, decorare le nostre case con luci sfavillanti e fronde verdi, non renderemmo davvero fruttuoso lo scorrere di queste settimane. Cristo è nato, e non deve nascere un’altra volta!
Avvento significa che deve ancora venire, attesa. Attesa di chi e di che cosa? Ce lo ricorda il profeta Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Noi attendiamo i tempi nuovi, in cui avrà stabile dimora la giustizia. Quel saldo monte verso il quale camminiamo desiderando la pace. Quella pace che manca dalla faccia della terra. Violenza, contese, incomunicabilità tra popoli avversari e capi di Stato che cercano di primeggiare uno sull’altro. Interessi materiali, l’idolatria di una nazione che ha più prestigio o diritti rispetto ad un’altra.
Se fosse sufficiente la nascita di Cristo, non ci ritroveremmo ogni anno tutti insieme a cantare e pregare: «Vieni Signore Gesù, vieni presto tra noi!». Come credenti, e come comunità cristiana noi desideriamo molto di più: invochiamo la venuta finale di Cristo sulla terra. Noi non sappiamo quando essa verrà: Gesù ce lo ha detto nel vangelo usando l’immagine del ladro di notte. Per poter portare a termine il furto non deve dare avvisaglie delle sue intenzioni, solo così riuscirà a cogliere di sorpresa i padroni di casa e portar via tutto. Il Signore alla sua venuta ci porterà con sé. A lui non interessano le cose materiali di questo mondo. Siamo noi che ingolfati delle cose di quaggiù rischiamo di dimenticare che tutte queste cose non sono nostre, ma ci sono date per operare il bene.
All’inizio della Messa abbiamo pregato Dio di poter andare incontro al Figlio suo con le nostre opere buone. Non abbiamo chiesto salute, ricchezza, successo. E in questo celebrare il Natale ci aiuta: il Figlio di Dio, che per noi è nato in una stalla, non ha bisogno delle apparenze, ma dell’indispensabile.
È bella quella storiella in cui tutti i pastori sono invitati dagli angeli a recarsi a vedere il Bambin Gesù. Chi porta un po’ di legna per il fuoco, chi porta un po’ di lana per rendere più calda la mangiatoia, chi un po’ di cibo e quanto può essere utile alla santa Famiglia. Solo tra tutti un piccolo e povero pastorello non ha nulla da portare, anche lui si avvicina alla mangiatoia e sbirciare il piccolo Salvatore. E tutto vergognoso cerca di nascondersi dietro la schiena degli altri pastori. La Madonna lo vede e lo invita ad avvicinarsi: e gli dice: «Vieni». «Non ho nulla da regalare” risponde il pastorello. E Maria gli dice: “Prendi il Bambino tra le tue braccia e cullalo finché noi riceviamo questi doni». Così il povero pastorello, venuto a mani vuote, riceve tra le braccia il Salvatore del mondo.
A volte pensiamo che Gesù da noi pretenda doni, impegno, sacrifici e rinunce. Che dobbiamo arrivare carichi di meriti e di vittorie su noi stessi. Egli invece più di ogni altra cosa ci chiede di arrivare liberi. Con il cuore libero per poterlo accogliere per quello che è e non per quello che pensiamo noi che Egli sia. Con le mani libere dalle cose materiali che ci rallentano. O che ci danno prima la preoccupazione di guadagnarle e poi il terrore di perderle.
Con piedi pronti a mettersi in cammino, allenati a percorrere anche le strade dell’ingratitudine dei fratelli, del desiderio di pace mortificato da un diniego, niente deve ostacolare il nostro cammino verso il “Veniente”, colui che viene verso di noi per salvarci e renderci liberi di vivere la nostra vita con la consapevolezza che le nostre opere buone sono la ricchezza che non ci carica le spalle, non ci occupa le mani, ma ci riempie il cuore, e che è questo il dono prezioso da portare a Dio nell’incontro finale.