La prospettiva di finire in tribunale non è una bella prospettiva. Si vive con l’ansia di non essere a posto; si vive con la trepidazione di incontrare il giudice, e di sentire da lui la sentenza di condanna o quella di assoluzione; in sostanza, ci si rintana, ci si nasconde per paura di sbagliare, per paura del rendiconto.
1. Perché, allora, Gesù ci butta lì proprio questa tremenda scena finale della storia? Non calca troppo la mano sull’aspetto del tribunale, del re che si siede su trono, che traccia una linea divisoria, che usa parole di maledizione, che sancisce una pena eterna?
Nella festa di Cristo – Re dell’universo – saremmo tentati di puntare lo sguardo verso il finale della storia umana, dove ci sarà, effettivamente, un rendiconto, dove ci sarà un presentarsi davanti a Lui che si è offerto, anzi prodigato per la nostra salvezza.
Però non sarebbe nelle nostre mani questa pagina del vangelo, se non diventasse efficace fin da ora, se appunto non fosse in grado di allenarci al vero giudizio. Fin da ora abituarci a usare anche quel tribunale specialissimo che è quello della nostra coscienza, quello di vagliare ciò che è bene, ciò che è male, ciò che si è si lascia indietro per omissione.
2. Con la solennità di Cristo Re proviamo prima di tutto la gioia di appartenergli. Essere di una persona significa sentirsi profondamente amati e accettati così come si è. La regalità che celebriamo può riaccendere in noi il collegamento così qualificante, così vitale, così misterioso tra noi e il Signore.
Il giudizio finale non è sopruso di un tiranno che arbitrariamente decide chi gli è simpatico e chi gli è antipatico; non è neanche un esame dall’esito incerto perché incerto è l’esaminatore. Il rendiconto ci è stato ampiamente anticipato: saremo giudicati sull’amore da Colui che è il sovrano dell’amore.
Noi, dunque, abbiamo come programma quello di scoprire la vastità di questo amore divino-umano che ha guidato Gesù.
3. Il secondo impulso della festa odierna è così traducibile: mi eserciterò nel dare a tutte le mie azioni un contenuto di eternità, perché il mio Re divino me le soppeserà. Oppure: non voglio sprecare nulla di quello che sono e faccio ogni giorno, perché ogni istante di vita contiene un germe di eternità. Più abbiamo familiarità con la parola di Dio, più entriamo in sintonia con lui.
Il regno di Dio, di cui così spesso ci ha parlato, è allora quanto Dio entra nella nostra vita, nel nostro cuore, nella nostra preghiera, nella nostra speranza. La domanda che ci può inquietare o consolare è questa: “in quale misura sono effettivamente suo? In quale misura Gli appartengo, e Lui mi può riconoscere tra i suoi”?
Un detto della tradizione ebraica esorta: “se un uomo chiede il tuo aiuto, non gli dire devotamente: «rivolgiti a Dio, abbi fiducia, deponi in Lui la tua pena», ma agisci come se non ci fosse Dio, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo, tu solo”.
Questa omelia è l’ultima che ci viene donata (per ora) da mons. Renato De Vido, che passa il testimone a don Roberto De Nardin, parroco in Val di Zoldo. Ringraziamo di cuore don Renato per il regalo che settimanalmente ci ha fatto fin dall’inizio dell’estate.