Belluno. Raramente vanno a messa, preferiscono una forma di preghiera soggettiva, intima. Si chiedono a cosa serva la Chiesa e faticano a comprenderne il linguaggio. Confondono la fede con l’etica, conoscono poco Gesù eppure hanno un atteggiamento d’apertura nei confronti di Dio. Però, allo stesso tempo, pensano sia bello credere, sono alla ricerca di relazioni calde nelle loro comunità parrocchiali e amano la figura di papa Francesco. È questo il profilo religioso del giovane del terzo millennio, così come lo fotografa un’approfondita ricerca condotta dal “Progetto Giovani” dell’istituto Toniolo dell’Università Cattolica di Milano.
L’analisi di queste sfaccettature dell’universo giovanile è stato il tema centrale di “Sotto la cenere, la brace”, l’incontro svoltosi giovedì 14 dicembre alla presenza di Paola Bignardi, coordinatrice del “Progetto Giovani” dell’istituto Toniolo, e del Vescovo Renato Marangoni. Un’analisi che parte da una presa di consapevolezza: “conosciamo molto poco i nostri giovani – introduce la prof.ssa Bignardi – e spesso il nostro giudizio su di loro è carico di precomprensioni. Invece dovremmo chiederci chi sono i giovani del nostro tempo, al di là della presunzione di conoscere già i loro sogni, le loro difficoltà, i loro progetti”.
Da anni infatti l’Istituto Toniolo pubblica un rapporto annuale sull’universo giovanile, con un’attenzione particolare alla loro dimensione religiosa. L’ultimo, quello del 2016, racconta di un’appartenenza alla fede cristiana al di sotto del 50% nel Nord Italia; al Sud, raggiunge il 56,5%; una pratica religiosa in caduta libera a livello nazionale (10% circa) e una generica «fede» professata dal 50% degli intervistati. Ma questi numeri, che da soli indicherebbero un processo di progressiva estraneità dei giovani rispetto ai valori religiosi, non ci dicono abbastanza. “A cominciare dall’immagine che i giovani hanno di loro stessi – continua la relatrice -: si definiscono destabilizzati, disorientati e disillusi, soli. E hanno domande, tante, che non sanno come affrontare, o con chi, perché non riconoscono negli adulti modelli che ispirino loro fiducia. Per questo abbiamo voluto approfondire questi aspetti con un’indagine qualitativa, che portiamo avanti dal 2013 attraverso 200 interviste, con un campione nazionale di 150 giovani, ai quali è stato chiesto di raccontare la loro storia religiosa. Emerge, dalle loro parole, un contesto sociale di velocità e individualismo, alla continua ricerca dell’appagamento immediato, nel quale diventa difficilissimo credere in Dio (“che non si vede e non si compra”, parole loro) e costruire relazioni calde, significative. Eppure non possiamo dire che questa sia una generazione incredula: chiedono di essere guidati, coinvolti e ascoltati attraverso relazioni che vadano più in profondità di quelle codificate dalla comunità. Non è un caso, infatti, se le istituzioni dai giovani sono bocciate con voti gravemente insufficienti. Anche la Chiesa, perché l’istituzione ha un aspetto d’oggettività, d’indisponibilità: s’impone al soggetto mentre loro chiedono di essere coinvolti e accolti. Anche per questo la celebrazione dei sacramenti, punto d’arrivo del cammino di catechesi, è anche il momento dell’interruzione dei contatti con l’ambiente ecclesiale: abbandonano la pratica religiosa perché non ne capiscono più il senso. Eppure, alla domanda «Che cosa c’è di bello nel credere?» quasi tutti gli intervistati hanno risposto che credere è bello. Perché la fede dà un senso alla vita; dà una speranza, ma soprattutto perché chi crede non è mai solo. Non è vero che questi giovani sono la prima generazione incredula: hanno bisogno di qualcuno che li accolga, e che, attraverso la relazione di cui tanto hanno bisogno, soffi via la cenere dalla brace. È questa la vera sfida pastorale e in questo senso il Sinodo dei Vescovi del 2018 è una grande occasione per prendere decisioni che portino la Chiesa a diventare un luogo più accogliente per i giovani”.
Proprio sulla necessità di relazioni calde si è soffermato anche il Vescovo: “Spesso troppo incenso soffoca la brace, e ci dimentichiamo o non parliamo delle emozioni, che invece sono fondamentali. Le esperienze autentiche devono passare anche attraverso le emozioni di vita. I giovani hanno nei nostri confronti grandi aspettative. Abbiamo bisogno, nel vissuto delle nostre comunità, di guardare con occhio purificato e con speranza ai giovani, e di farci coinvolgere dalla loro inquietudine, per costruire con loro un intonazione”.
Michele Giacomel