Epifania del Signore

L’uomo, questo cercatore mai appagato

a cura di don Giorgio Aresi

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Come vedi tutto è consueto
In quest’ingorgo di vita e morte
Ma mi rattristo, io sono lieto
Di questa pista di voglia e sorte
Di questa rete troppo smagliata
Di queste mete lì da sognare
Di questa sete mai appagata
Di chi starnazza e non vuol volare

(F.Guccini, Lettera, 1996)

Qualcuno ha detto che i testi di Guccini dovrebbero entrare nei testi di letteratura delle scuole – e forse non è poi così sbagliato, anzi –; certo Guccini non è il Vangelo, ma verrebbe a volte da pensare che il suo sguardo sulla realtà non appare così lontano dal quel profondo realismo di ogni pagina del Vangelo di Gesù.

E proprio nel frammento di questa canzone, in quelle parole così disarmanti, ognuno di noi può respirare ciò che siamo. E – per quanto possa apparire azzardato – in quelle parole è custodito, forse, il senso di ciò che hanno vissuto quei “Sapienti d’oriente” che hanno seguito una stella per inginocchiarsi di fronte ad un bambino, che ha cambiato l’uomo, il mondo, la storia, rivelandone il destino ultimo e definitivo.

“Come vedi tutto è consueto/In quest’ingorgo di vita e morte”: è la fotografia spietata di ciò che sembra la nostra vita, convulsa e irrevocabilmente attratta dentro il vortice delle cose, delle notizie che da ogni parte bombardano il pensiero; una vita dove tutto è consueto, anche fare i conti con la vita e la morte, che oggi ha preso te e risparmiato me, e domani chi lo sa se sono ancora qui.

È vivere in quell’abitudine esistenziale di una quotidianità dove ti sembra di avere tutto, e in realtà rimani inquieto e assetato e non capisci che cosa ti manca, che cosa il tuo cuore domanda e sogna per te e la tua vita.

E allora non è forse questo che ha mosso quel giorno alcuni Magi che «vennero dall’oriente a Gerusalemme e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”» (Mt 2,1-2).

Hanno capito che una vita dove tutto è “consueto” in un ingorgo di vita e morte, non può avere senso, non può nemmeno farti intravedere che una felicità è possibile, ma che, al contrario, tutto appare banale e mediocre.

Ma mi rattristo, io sono lieto […] / Di queste mete lì da sognare / Di questa sete mai appagata / Di chi starnazza e non vuol volare: allora siamo fatti per che cosa? Per consumare i giorni e gli anni mai soddisfatti nei nostri giochi mentali che ogni giorno ci fanno vivere nella perenne filosofia del “vorrei ma non posso”? Nell’insano rancore di chi sogna per se stesso traguardi di riconoscimenti e di carriere – anche ecclesiastiche, perché no?! –, di mete da raggiungere che disegni nei voli troppo alti della fantasia dei giorni e delle notti e che mai arriveranno. Insomma una vita ad accontentarsi del volo impedito di un tacchino, piuttosto che desiderare davvero ali d’aquila.

Eppure quei Magi, non si sono accontentati di mete da sognare, di un orizzonte che appare sempre lontano e mai si fa desiderio di una meta. No, quei Sapienti d’oriente hanno intrapreso un viaggio, hanno dato sostanza a quella sete mai appagata di chi desidera vivere e non sopravvivere.

Hanno compreso che tutta la “scienza” di vita che potevano aver conquistato non era ancora una “sapienza” di vita – come il buon vecchio Aristotele non smette di ricordarci-, il possesso di quella Verità che ti apre gli occhi… che poi è quel Dio che “non toglie nulla, ma dona tutto” (Benedetto XVI, Omelia, Inizio Pontificato, 2005).

Ma allora di cosa abbiamo bisogno, affinché questi strani e un po’ indecifrabili Magi d’oriente possano parlare alla nostra vita?

Forse hanno vissuto – con quel loro lungo viaggio che li ha portati a Betlemme ad inginocchiarsi di fronte a quel Dio fatto bambino, uomo – il senso più vero delle parole del – e posso sbagliarmi – più grande filosofo della modernità, la cui vita è stata una ricerca ininterrotta e mai conclusa dell’umanità autentica, e che si chiamava S. Kierkegaard, il quale scriveva che l’uomo: «può andare per una strada quasi danzando, quando le angosce del mondo finito cominciano il loro gioco e i discepoli della finitezza perdono l’intelletto e il coraggio» (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia).

Ecco, chi si accontenta proprio di una vita mediocre, di quella sete mai appagata di chi starnazza e non vuol volare – come ci ricorda Guccini – perde proprio il dono più alto di ciò che lo rende autenticamente uomo: perde quell’intelletto che è l’instancabile ricerca del senso della propria vita e il coraggio di decidere della propria esistenza, per farne – come i Magi – una sete vera di Verità.

Sovvengono le parole del Card. Martini, quando scriveva dell’uomo «come aperto al mistero, paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto, essere eccentrico e insoddisfatto, che soltanto in una incondizionata dedizione all’imprevedibile piano di Dio trova le condizioni per realizzare la propria autenticità» (C.M. Martini, La dimensione contemplativa della vita).

Quanto è vero, perché ognuno di noi, che lo riconosca o no, alla fine rimane un cercatore di Dio.


Con questa solennità ci congediamo dalle riflessioni di don Giorgio Aresi – parroco di Lamon, San Donato e Arina – al quale è dovuta una parola di gratitudine per la passione con cui ha preparato le omelie pubblicate su questo sito. Dalla prossima domenica il testimone passa a don Ezio Del Favero, parroco di Tambre, Spert e Borsoi.