A cura di don Renzo Roncada (2ª Domenica di Pasqua - Anno B)

Mio Signore e mio Dio

Non dobbiamo pretendere di essere eroi della fede, accontentiamoci di essere cercatori

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Quante volte l’apostolo Tommaso è stato posto sotto processo? Siamo tutti pronti a dire: pretende di vedere e toccare prima di credere. Comodo. Facile. Troppo facile. Una fede che si basi sul vedere e sul toccare non è più fede. Tommaso, quindi, simbolo dell’incredulità, rappresentante tipico di una mentalità moderna che ammette soltanto ciò che cade sotto i sensi, ciò che si può misurare, analizzare, verificare. Ma noi non siamo forse tutti così? Una volta tanto, allora, cerchiamo di difenderlo.

Tommaso detto “Didimo” il che vuol dire gemello, perché aveva una straordinaria somiglianza con Gesù. Ma veniamo al nocciolo della questione. Gli altri apostoli avevano già visto il Signore, che aveva mostrato loro le mani e il costato. Solo lui, Tommaso, senza senza meriti e senza colpe, non l’aveva visto. Ma anche lui era stato mandato per annunciare il Vangelo e il fatto che non avesse visto il Signore risorto poteva essere un ostacolo alla credibilità della sua testimonianza. Pensate che figuraccia.

Certo, aveva preteso di mettere il dito, ma io credo che anche gli altri avrebbero desiderato di fare la stessa cosa, ma non avevano avuto il coraggio di dirlo. Facciamoci allora la domanda fondamentale: da dove arriva l’incredulità? Proprio dal cenacolo. Se gli apostoli avessero dimostrato con il volto allegro, con l’espressione delle loro facce gioiose, con un tono di voce entusiasta, con un clima di serenità e di pace, sarebbe bastato. Se Tommaso non ha creduto, vuol dire che le loro facce non erano poi tanto convincenti. Non c’era poi tanta gioia. Rimanevano chiusi per la paura. Proprio loro smentivano il loro stesso racconto. E allora, solo allora, Tommaso ha preteso dei segni, perché erano stati negati da quelli che avevano visto. E se non ha creduto Tommaso come faranno a credere tutti gli altri? Come faremo a credere noi?

I testi di teologia, gli addetti ai lavori, gli studiosi, ci dicono che dobbiamo “vedere” nella Chiesa. Ma la Chiesa (che siamo tutti noi) continua a “dimostrarmi”, continua a “spiegarmi” più che a farmi vedere, continua a “indottrinare” più che irradiare una presenza. La storia di Tommaso si ripete in noi: ci sono le parole, ma non c’è la luce.

Guardiamo, allora alla parte buona di Tommaso. Quando è arrivato Gesù, per lui il toccare non è più servito. È bastata la presenza, la voce. E non solo il toccare è diventato superfluo, ma anche il vedere. Al posto del dito nella piaga dei chiodi, è parso più sicuro a Tommaso mettere le ginocchia sul pavimento ed esclamare: «Mio Signore e mio Dio». Ecco la risposta della fede.

Camminare con il dubbio. Questa è la nostra strada. Non dobbiamo pretendere di essere eroi della fede, accontentiamoci di essere cercatori. Allora anche noi proveremo la gioia di poter dire: «Mio Signore e mio Dio», senza renderci conto del come e del perché. Quello è affare di Dio.

«Mio Signore e mio Dio». La parola definitiva. Quella che Gesù aspetta con pazienza da noi. Da tutti noi.