A Cavarzano

Per ricordare don Francesco Soccol

Il restauro di un antico crocifisso ligneo della metà del Trecento per ricordare il parroco morto improvvisamente nel 2017

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In occasione delle recenti feste pasquali, è stato presentato alla comunità parrocchiale di Cavarzano un inedito crocifisso ligneo, intagliato e policromo, in questi ultimi decenni conservato nella sacrestia della vecchia chiesa dei Santi Quirico e Giulitta. Nelle intenzioni del parroco, don Graziano Dalla Caneva, e del Consiglio pastorale parrocchiale c’è la volontà di restaurarlo ed esporlo in modo permanente in chiesa alla devozione dei fedeli. L’intervento di recupero del manufatto sarà realizzato dalla restauratrice Mariangela Mattia e vorrà ricordare il compianto don Francesco Soccol, indimenticato parroco di Cavarzano tragicamente scomparso nel 2017.

Nonostante lo stravolgimento dell’aspetto, dovuto alla presenza di una pesante ridipintura, analizzando la definizione delle anatomie, la modalità d’intaglio che definisce barba e capelli, la tipologia del perizoma, si può ritenere che sia una scultura databile intorno alla metà del XIV secolo. Si tratta pertanto di uno dei crocifissi più antichi della diocesi di Belluno-Feltre e il suo recupero consentirà di aggiungere un tassello importante allo studio della scultura lignea tardomedievale bellunese e veneta.

Il Cristo era forse già presente nell’antica cappella di “Sancti Quirici de Cavarzano”, di cui il primo documento archivistico risale al 1346; questo edificio, di dimensioni ridotte, fu demolito nel Cinquecento per costruire la chiesa ancora oggi visibile. Da tradizioni orali ci risulta che il crocifisso venisse utilizzato nei riti della settimana santa, e in particolare del Venerdì Santo, fino agli anni ’40 del secolo scorso; presumibilmente era esposto nella parete sinistra della navata della vecchia chiesa parrocchiale, dove ora si trova una recente scultura della Madonna. Per quanto riguardo la provenienza originaria, si può altresì ipotizzare un suo ingresso in chiesa tramite le acquisizioni ottocentesche di molte opere d’arte sacra del territorio, per effetto delle spoliazioni e delle demanializzazioni di epoca napoleonica che causarono un’ingente dispersione del patrimonio ecclesiastico. Ricordiamo, infatti, che attorno al 1807 giunse a Cavarzano, proveniente da Santa Maria Nova, il gruppo scultoreo della Madonna con Bambino di Andrea Bellunello. Inoltre non si fa menzione del Crocifisso nella dettagliata relazione della Visita pastorale del vescovo Valerio Rota nel 1723. Tuttavia la destinazione liturgica poteva comportare, allora come oggi, una collocazione mobile e non stabile in chiesa; inoltre, dopo la Riforma cattolica, manufatti di gusto “antico” come questo crocifisso erano spesso sostituiti con opere più moderne e rispondenti alla nuova sensibilità religiosa ed estetica.

L’opera è concepita come una rappresentazione iconografica del Cristo sofferente e si avvicina alla tipologia del “Crocifisso gotico doloroso” di derivazione nordica, secondo la fortunata definizione di G. De Francovich del 1938. Si concentra quindi sulla drammatizzazione della morte e sulla raffigurazione delle sofferenze patite dal Cristo sulla croce, con un’attenzione particolare al corpo straziato, al racconto delle piaghe, dei rivoli di sangue e del viso doloroso. È la visualizzazione del Servo sofferente e sfigurato descritto dal profeta Isaia:

Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

La tipologia del crocifisso doloroso, la cui diffusione è stata favorita dalla spiritualità degli ordini mendicanti, in particolare i Francescani, rispondeva all’esigenza di avvicinare emotivamente la dimensione del sacro al vissuto quotidiano del fedele. Il simulacro del Cristo morto tramite il mezzo plastico della scultura era il più adatto a creare un’immagine concreta di uomo sofferente, un’imago pietatis da offrire alla contemplazione, alla meditazione e all’immedesimazione della passione da parte del popolo di Dio.

Possiamo confrontare il manufatto di Cavarzano con il Crocifisso della chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, risalente alla metà del Trecento, che presenta alcune similitudini. Si vedano la gabbia toracica in evidenza e solcata dalle ossa, l’addome incavato, il panneggio del perizoma. Il volto reclinato del Cristo di Cavarzano è più appuntito nella barba e manifesta, nella sua espressione facciale e nella bocca socchiusa, il sopraggiungere della morte: è il momento in cui Cristo ha esalato lo spirito; nel crocifisso di San Gervasio, invece, il volto è agonizzante, la bocca aperta da cui prorompe l’ultimo grido. In ogni caso entrambi sono caratterizzati da una tragica forza espressiva, da un dolore accentuato tramite alcune deformazioni anatomiche e da un crudo ed esasperato realismo nel corpo insanguinato, con l’evidenza delle ferite inferte durante la flagellazione, in virtù della loro forza salvifica, e dalla corona di spine posta sul capo del Salvatore.

Giorgio Reolon