#pensachefede

Sentinella, quanto resta della notte?

L’incontro di Brunetto Salvarani con il pubblico bellunese

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Pubblico delle grandi occasioni nell’Aula magna del Seminario Gregoriano nella serata di venerdì 10 gennaio: 80 persone collegate online e 70 in presenza. Tra gli altri il vescovo Renato e un bel gruppo di scout, certamente attirati dalla nomea del relatore, il professor Brunetto Salvarani, ma anche dal tema all’ordine del giorno: «Educare alla pace in tempo di guerra». L’incontro segna la ripresa postnatalizia degli incontri di formazione teologica #pensachefede, voluti dalla nostra diocesi in collaborazione con il Polo didattico di Belluno dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Giovanni Paolo I”.

Presentato al pubblico dal don Rinaldo Ottone, Salvarani ha voluto ricordare alcuni nomi del contesto bellunese che hanno incrociato il suo percorso di teologo, concentrato sul dialogo ecumenico e interreligioso: don Francesco Silvestri, Ennio Dal Farra, don Emilio Zanetti e monsignor Vincenzo Savio. E poi l’incontro in Thailandia con il missionario don Bruno Soppelsa.

Il suo intervento, accattivante per l’eloquio e soprattutto per l’ampio respiro dell’orizzonte, ha preso le mosse dal contesto culturale mondiale che ci attornia, ben definito da papa Francesco al Convegno delle Chiese italiane di Firenze (novembre 2015): «Non siamo in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca». Anche i numeri delle comunità cristiane indicano un cambio di paradigma: indici in ribasso, crisi generalizzate, giovani in fuga. «Eppure – evidenzia il teologo – anche questo tempo può essere un’opportunità».

Poi l’analisi di quello che sta accadendo in Medioriente, che stigmatizza come una «apocalisse del conflitto Israelo-palestinese». Risale ai tempi della guerra di Suez (1956), quando si narra che un autorevole diplomatico abbia sbottato: «Perché non ci sediamo a trattare queste cose da buoni cristiani?». Invece il presidente Jimmy Carter, preparando i colloqui di Camp David nel settembre 1978, comprese l’incipiente corto circuito tra religione e politica che animava il conflitto.

Nel 1991 il politologo francese Kepel Gilles, nel volume La rivincita di Dio, pubblicò gli esiti della sua inchiesta in Europa, in America e in Medio Oriente. Svelava il ritorno dell’integralismo/fondamentalismo, che attraversava le tre religioni abramitiche e metteva in scacco i paradigmi illuministici e secolaristici che negli anni Sessanta avevano profetizzato l’eclissi del sacro. Giovanni Paolo II intuì questo pericolo, quando nel 1986 chiamò ad Assisi le religioni di tutto il mondo a stringere un patto per la pace.

Ma il virus dei fondamentalismi intanto si era fatto strada nella cultura: l’11 settembre è stato rivelativo del fenomeno in atto. Il problema non riguarda solo l’islam; anche nell’ebraismo c’è una fronda che legge l’Antico Testamento e il Talmud in maniera fondamentalista; né manca nelle sette pentecostali e pure nell’ambito ispirato al cattolicesimo: è quel mondo che si mette di traverso di fronte al magistero di papa Francesco, che invece ha profeticamente insistito nel richiamo delle religioni a una testimonianza di pace: qui si comprende il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, sottoscritto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 insieme al Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb.

È in questo milieu culturale che si innesta il conflitto Israelo-palestinese, danno poi la stura al dilagante antisemitismo e all’islamofobia, cavalcate da noti politici e pubblicisti, che proprio sull’odio hanno saputo costruire le loro carriere e… «non faccio nomi!».

A giudizio di Salvarani, l’unica strada possibile è quella che nel 2003 indicava il cardinale Martini, mentre tornava da Gerusalemme portando nel cuore il sinistro suono delle sirene dopo un attentato:

«Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace».

«Chi fa la guerra – commenta Salvarani – è un disperato, perché non spera in qualcosa di positivo». E qui si innesta il tema giubilare, che ci fa «pellegrini di speranza». «Sperare è cosa difficile», eppure il cristianesimo è speranza, come diceva Agostino: «È solo la speranza che ci rende cristiani». La speranza è virtù bambina, secondo Charles Péguy; ma è meglio rappresentata da una signora anziana, che si può fidare solo di Dio. Ha ricordato il profeta Geremia che, quando tutti dicono pace, si rende conto della catastrofe; quando arriva la catastrofe, compra un campo. Anche se l’esilio a Babilonia sarà lungo, avrà una fine: e scrive agli esiliati (capitolo 29), perché vivano la loro vita anche in esilio, lavorino e facciano figli e figlie. Non per nulla una parte del Talmud nasce a Babilonia. «Shomèr ma mi-llailah? Sentinella, quanto resta della notte?», chiede Isaia 21. «Trovare il filo di speranza, sapendo che vera speranza è quella che spera anche per gli altri». Non ci può essere un individualismo della speranza, è speranza cristiana quella che spera per tutti.

Un segno di speranza è il villaggio di Neve Shalom – Wahat as-Salam, a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, fondato nel 1972 da padre Bruno Hussar, un religioso domenicano, che era ebreo di nazionalità, simpatizzava per gli arabi, ma era cristiano. 400 abitanti di due nazionalità e tre religioni, che vivono assieme, anche se appartenenti a popoli storicamente nemici. Bambini che vanno a scuola insieme, imparano le due lingue, preparano le feste religiose insieme. E così escono dalla logica del “noi contro loro”, che da qualche decennio sta infestando anche la politica italiana.

«E la pratica religiosa? Padre Hussar pensava di costruire un tempio triangolare», per le tre religioni, ma poi venne interpellato dagli agnostici. Trovò una risposta nel Salmo 65: «Per te il silenzio è lode, o Dio». E nacque la Casa del silenzio (Beit Dumia – Bayt Sakina), un luogo di riflessione, meditazione e preghiera. Non per rinnegare la fede, ma perché le religioni possono fare un passo indietro, quando diventano un fattore di identitarismo.

«Costruire la pace è accettare la complessità». Invece oggi la terminologia preferita è quella della chiarezza manichea: bene contro male, vittoria sul male, una parte che sbaglia e una che ha ragione. Ma vale ancora il verso di Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa, e da lì entra la luce».

Nella mattinata di sabato 11, Salvarani ha incontrato i giovani nell’Aula magna del Liceo Lollino; un incontro promosso da #pensachefede, in collaborazione con le Scuole in Rete per un Mondo di Solidarietà e Pace, il Comitato “Belluno Comunità che Educa”, l’associazione “Amici delle Scuole in Rete”, l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra e l’Ufficio scolastico di Belluno.

Davide Fiocco