«Ho desiderato ardentemente…» (Lc 22,15)

Bellezza e verità della celebrazione cristiana

 

Quasi inaspettatamente il 29 giugno di quest’anno papa Francesco ha consegnato alla Chiesa una Lettera apostolica sulla formazione liturgica del popolo di Dio che prende avvio con le parole di Gesù: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 15). L’ardente desiderio di Cristo di mangiare quella Cena con i suoi è all’origine del nostro radunarci insieme. Se noi vogliamo fare Eucaristia è perché lui, per primo ha desiderato intensamente incontrarci per donare tutto se stesso.

Qui si radica e si sostiene la nostra prassi liturgica e tutto lo sforzo che dobbiamo attuare affinché la liturgia sia fonte di vita cristiana. Per secoli essa, per quanto celebrata in modo ineccepibile dal punto di vista rubricale, non è stata al centro dei cammini di educazione alla fede, ma piuttosto ai margini. La fede si nutriva altrove.

Ora papa Francesco, attingendo al meglio del cammino del Movimento liturgico novecentesco e del Vaticano II, ci invita a riscoprire la liturgia come fonte genuina del nostro essere discepoli di Cristo, continuamente richiamati al suo mistero pasquale per avere la vita e la forza della testimonianza.

La mondanità spirituale e la liturgia come antidoto

Che la liturgia abbia a che fare con lo spirito e la spiritualità, e non in modo derivato, papa Francesco lo fa comprendere a partire da un tema a lui particolarmente caro, già segnalato in EG 93-97: la mondanità spirituale. Per il papa

la mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Assume molte forme, a seconda del tipo di persona e della condizione nella quale si insinua. Dal momento che è legata alla ricerca dell’apparenza, non sempre si accompagna con peccati pubblici, e all’esterno tutto appare corretto. Ma se invadesse la Chiesa, «sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale» (EG 93).

Questo atteggiamento autocentrato, secondo il papa, è alimentato da due modalità di intendere la fede:

  1. lo gnosticismo che confina l’individuo credente nella presunta fortezza della propria ragione o del suo sentire;
  2. il neo-pelagianesimo che dimentica il valore della grazia divina e la potenza del Vangelo e illude che le forze dell’uomo siano sufficienti per camminare da credenti.

Il papa vede proprio nella liturgia un antidoto contro queste due malattie dell’anima. Per quanto riguarda la prima,

la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autoreferenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo. La Liturgia non dice “io” ma “noi” e ogni limitazione all’ampiezza di questo “noi” è sempre demoniaca. La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo (DD 19).

Per quanto riguarda, invece, la seconda

la celebrazione liturgica ci purifica proclamando la gratuità del dono della salvezza accolta nella fede. Partecipare al sacrificio eucaristico non è una nostra conquista come se di questo potessimo vantarci davanti a Dio e ai fratelli. […] La Liturgia non ha nulla a che vedere con un moralismo ascetico: è il dono della Pasqua del Signore che, accolto con docilità, fa nuova la nostra vita (DD 20).

Il papa non tocca soltanto dimensioni della spiritualità del nostro tempo, che tanta parte hanno anche nell’organizzazione della vita pastorale e forse anche della vita dei preti e dei diaconi, ma con una certa audacia indica proprio nella liturgia la medicina in virtù di risorse interne alla liturgia stessa.

Per il fatto che essa non è azione privata e neppure “pubblica” (se con questo termine indichiamo il “pubblico” o la massa informe e anonima) ma comunitaria (cf. SC 26), la liturgia non è un bene dei singoli e neppure dei gruppi, ma è della Chiesa che celebra, della comunità radunata. Addirittura il papa bolla come “demoniaco”, e dunque divisivo, il tentativo di chi vuole restringere la portata del “noi” liturgico: se non può essere banalmente confuso con la massa non può essere nemmeno ristretto al circolo di chi segue una determinata linea o condivide un certo sentire. L’“io” del singolo è preso per mano dai riti stessi, tipicamente corporei e dunque relazionali, per fare corpo con gli altri convocati e per sperimentare il dono di Dio. Corpi chiamati a comporre un corpo solo. Esattamente quello che chiediamo ad ogni preghiera eucaristica:

Ti preghiamo umilmente: per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo. (PE II)

… concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo, diventino offerta viva in Cristo a lode della tua gloria. (PE III)

Ad una mentalità che voleva (o vuole) fare della partecipazione al culto un atto di (solo) dovere, un compito, un “precetto” al quale ottemperare, il papa oppone il primato del dono che la liturgia fa sperimentare attraverso azioni libere e gratuite. Mentre i fedeli, prima di accostarsi alla comunione, sussurrano: «Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa…» non dichiarano soltanto la loro indegnità, ma innanzitutto riconoscono la grandezza del dono, sempre sproporzionato rispetto ai poveri meriti dell’uomo. Non c’è nulla da conquistare, non c’è un premio per i giusti, ma c’è un dono da gustare che ogni volta diventa principio e garanzia di vita nuova. Più volte il papa ha ricordato che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso alimento e un impegno per i deboli» (EG 47; cfr. AL n. 351).

Immersi come siamo in una mentalità individualistica, e qualche volta schierati o dalla parte dei diritti o dalla parte dei doveri, con maggiore intensità dobbiamo vivere e pensare la liturgia, e l’Eucaristia in particolare, nella consapevolezza che in essa innanzitutto si sperimenta il dono d’amore di Dio in Cristo. Solo perché è un dono la Messa è anche un “precetto”. Solo a tutela del dono è possibile pensare alla Messa come “precetto”: c’è un “precetto” affinché la partecipazione alla Messa non sia soggetta ai miei capricci, soltanto alla mia voglia, o alla gerarchia dei miei impegni, ma perché essa è un dono immeritato di Dio che mi precede, mi attende e mi supera.

«Erano pieni di stupore» (Lc 24, 40): l’accoglienza del dono

Il papa si sofferma sulla categoria dello stupore quale modalità di accoglienza del dono e come attualizzazione del mistero pasquale nella storia. Anche i discepoli quando appare loro il Risorto si riempiono di stupore. Lo stupore è la presa di coscienza, quasi incosciente, della sproporzione tra il mistero di Dio e la situazione di ogni uomo.

Giovanni Paolo II nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia (n. 6) accenna allo stupore eucaristico che deve accendersi in coloro contemplano questo sacramento. In DD, però, lo stupore non è un atteggiamento che riguarda coloro che, come spettatori ammirati, “contemplano” il mistero, ma è strettamente legato alla celebrazione; anzi, è parte integrante della celebrazione in quanto «è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa» (n. 26). Tutt’altro, afferma il papa, che quel malinteso “senso del mistero”, sinonimo di «una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico» (n. 25), la cui perdita secondo alcuni sarebbe da attribuire alla riforma conciliare.

Lo stupore autentico nasce dal saper stare al gioco dei simboli nella viva coscienza che attraverso di essi siamo raggiunti dal dono di salvezza. Si tratta di un gioco di vicinanza e di distanza: vicinanza perché il dono ci raggiunge attraverso le azioni rituali, così umane e così terrene, e, al contempo, distanza perché il dono non ci appartiene, non è da noi immediatamente fruibile, non possiamo dominarlo e controllarlo. Anzi, solo mediatamente, attraverso la mediazione dei segni sensibili (SC 7) possiamo gustarlo e farne parte. Per questo la liturgia stupisce: è cosa nostra eppure non ci appartiene! Di conseguenza, lo stupore non è l’atteggiamento di chi sta di fronte all’atto liturgico, ma piuttosto di chi è dentro di esso.

Esso non va cercato in ciò che oscura e nasconde, ma in ciò che rivela senza per questo offendere l’alterità del mistero. Lo stupore deve nascere dalla composizione dell’assemblea santa, dall’ascolto della Parola, dal canto comune, dall’uso delle lingue degli uomini, dalla nobile bellezza raccomandata dal Concilio.

Sono memorabili le parole di Romano Guardini che rimane colpito dalla partecipazione tutta particolare dei fedeli durante la Settimana Santa a Monreale:

La folla stava seduta e guardava. Le donne portavano il velo. Nei loro vestiti e nei loro panni i colori aspettavano il sole per poter risplendere. I volti marcati degli uomini erano belli. Quasi nessuno leggeva. Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il “santo” nell’immagine e nel suo dinamismo.

Lo sguardo dei fedeli di Monreale non era uno sguardo esterno alle azioni che si andavano compiendo, ma era parte integrante dell’azione. Non c’era neppure la mediazione molto intellettuale della lettura che spesso riscontriamo anche nelle nostre assemblee (ora persino con telefonini e tablet!). Qui Guardini comprende il fondamento della vera pietà liturgica che, traducendo dalle sue parole, potremmo rendere così: la capacità di cogliere il mistero di Dio, sempre ineffabile, nelle azioni del rito, sempre povere e fragili, e nello stesso tempo vie attraverso le quali è possibile incontrare il Signore.

Forse una certa tradizione spirituale ci ha abituati a intendere parole come adorazione, contemplazione, persino stupore, come qualcosa di puramente intimo ed individuale, da accostare alla sfera dell’incomprensibile e dell’enigmatico o dell’inaccessibile, e questo è accaduto soprattutto nel campo della devozione eucaristica (che non a caso si è sviluppata fuori e a prescindere dalla Messa), quasi che il rapporto più autentico con il Signore dovesse passare attraverso il lato più nascosto della persona e dovesse saltare ogni realtà esteriore e sensibile. Il Concilio ci ha insegnato che, se vogliamo davvero “comprendere” che cos’è l’Eucaristia, dobbiamo assumere le logiche composite dei riti (SC 48: per ritus et preces id bene intellegentes). Se vogliamo comprendere l’Eucaristia e stupirci dobbiamo affidarci alla bellezza semplice della Parola proclamata, del gesto dello spezzare il pane, del mangiare e del bere, del rendere grazie e dell’invocare.

Il “mistero” nella liturgia c’è, ma per essere svelato e donato, senza che per questo nessuno possa pretendere di farlo proprio. Questa è la forza e la fragilità del simbolo: consente un contatto forte, efficace, ma non ammette la cattura, perché il simbolo dice e non dice, è al di qua e al contempo rimanda al di là.

Da più di 100 anni la Chiesa familiarizza con l’idea di partecipazione che non consiste come banalmente si vuole far credere nell’attivismo finalizzato ad evitare la noia dei riti, ma nel fatto che tutti, partecipando ad un’azione comune, partecipano (diventano parte!) al mistero. Non dimentichiamo l’insegnamento di sant’Agostino: nel gesto “dialogico” (fatto di dare e ricevere, dire e rispondere) della comunione avviene la consegna e la ricezione della nostra identità, che è essa stessa mistero (disc. 272, ad infantes de baptismo):

Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra. Se voi siete corpo di Cristo e sue membra, il mistero di voi (mysterium vestrum) è posto sulla mensa del Signore: voi ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete “Amen” e rispondendo lo sottoscrivete. Tu senti “il Corpo di Cristo” e rispondi “Amen”.

Come preti siamo chiamati a destare una partecipazione stupita ai santi misteri non per gli espedienti che aggiungiamo alla trama della liturgia, ma perché siamo formati all’arte del presiedere dalle stesse parole e dagli stessi gesti che la liturgia mette sulle nostre labbra e nelle nostre mani (cfr. DD 60): la postura, il tono della voce, la qualità umile e solenne ad un tempo dei gesti. Se non è così il nostro celebrare diventa esibizione di noi stessi. Su questo il papa è molto chiaro quando ricorda che protagonista della celebrazione è il Risorto: «non lo sono di sicuro le nostre immaturità che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere» (DD 57).

Per questo non occorrono direttori o prontuari (se non per «la durezza del nostro cuore», DD 57), ma quella fede intensa che per il papa è «frequentazione assidua del fuoco di amore che il Signore è venuto a portare sulla terra» (cfr. Lc 12, 49).

Perché ci sia stupore occorre una sana e santa “incompetenza” nelle cose che riguardano Dio. Certo, la liturgia esige competenza, ma anche l’incompetenza di chi non sa già tutto e si lascia toccare in modo quasi “infantile” dalla Parola che ascolta, dal canto che intona, dal gesto che compie (il papa accenna all’«umiltà dei piccoli, atteggiamento che apre allo stupore» (DD 38). Per fare un esempio: è importante che la Veglia pasquale proceda bene, senza intoppi, ma quanto riusciamo a fare l’operazione elementare che legittima il lucernario della Veglia, ovvero stupirci davanti alla fiamma del cero che fende le tenebre, impegnati come siamo a fare in modo che tutto “funzioni”?

Formati dalla liturgia

Il papa dedica l’ultima parte della lettera al tema della formazione liturgica ponendo come sfida il recupero della capacità di confrontarsi con l’agire simbolico. Si tratta del cammino che ogni fedele deve fare per crescere nella conoscenza del senso teologico della liturgia. Essa però non dipende soltanto dallo studio, ma dalla disponibilità ed entrare nelle logiche della stessa liturgia. È la liturgia, quindi, che forma per prima (DD 40) alla condizione che, appunto, ridiveniamo capaci di simboli, secondo l’insegnamento di Guardini (Formazione liturgica; DD 44), capaci nel nostro agire di stare tra cielo e terra, tra anima e corpo.

Su questo il papa si sofferma in modo particolare quasi si trattasse di un’autentica patologia del nostro tempo: la carenza di capacità simbolica, infatti, porta innanzitutto ad un errato approccio con il corpo, ora esaltato, ora disprezzato quando non è più forte e bello. Bisogna ripartire dalla bellezza della creazione per giungere ad uno sforzo educativo che coinvolga grandi e piccoli.

Inoltre, il papa ritorna sul tema dell’ars celebrandi. Non è solo tecnica, ma azione animata dallo Spirito e per questo libera da quei soggettivismi così ricorrenti nel nostro tempo: «occorre una diligente dedizione alla celebrazione lasciando che sia la celebrazione stessa a trasmetterci la sua arte» (DD 50). Anche qui preziosa è la parola di Guardini quando parla della disciplina, intesa come «rinuncia ad una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso» (Formazione liturgica; DD 50). È questa disciplina che forma i battezzati e li plasma nel corpo e nel cuore più di ogni iniezione ideologica.

A questo proposito, il papa si sofferma sul compito dei ministri ordinati in ordine al celebrare ed elenca alcune opposte modalità che dicono stili inadeguati del presiedere la preghiera: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatica; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. In sintesi: «esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo» (DD 54). Dunque, un problema squisitamente spirituale.

Quali possibili rimedi?

  • Innanzitutto essere consapevoli che essere presbiteri o diaconi che presiedono un’assemblea liturgica è una modalità in cui il Signore viene a presenza in mezzo ai suoi (cf. SC 7): è questo che rende i nostri poveri gesti, i gesti di Cristo, le nostre parole le sue parole;
  • avere una regola di fondo che verifica la congruità del nostro agire con l’agire di Cristo: lasciarsi istruire dalla liturgia poiché «la norma più alta, e quindi, più impegnativa, è la realtà stessa della celebrazione eucaristica che seleziona parola, gesti, sentimenti, facendoci comprendere se sono o meno adeguati al compito che devo svolgere» (DD 57);
  • coltivare l’umiltà che è docilità all’azione dello Spirito per presiedere l’assemblea della fede nella consapevolezza di non essere migliori degli altri, ma servi della loro fede;
  • lasciarci educare dalle parole e dai gesti della liturgia: sono questi che danno forma ai sentimenti interiori e possono dare forma alla vita spirituale e al ministero (cf. DD 60: il presbitero «non può dire: “Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”, e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il popolo a lui affidato»).
La liturgia per imparare a desiderare

L’intenso desiderio del Signore di cenare con i suoi discepoli deve diventare anche la nostra passione. Appassionarci (un po’ di più) alla liturgia significa coinvolgerci con tutto il nostro essere in quello che facciamo. Lo sappiamo: celebrare a volte stanca, spesso dobbiamo celebrare più volte e talvolta il nostro impegno sembra non essere corrisposto dai fedeli. Eppure celebrare bene, con “passione”, appunto, per quello che facciamo, anche con assemblee piccole o minuscole (parlo per esperienza!), è essenziale per tornare alla fonte zampillante. E celebrare bene significa non fare della liturgia la fotografia di me, ma la manifestazione di Lui.

La liturgia ci colloca nel desiderio di Dio e purifica i nostri desideri. Solo per un uso distorto della liturgia essa può diventare una forma di potere: in realtà il rito dandoci parole altre e gesti altri ci fa perdere il potere e ci rimanda altrove, oltre, nel mistero dell’unico Signore delle nostre vite, fino ad abilitarci a desiderare come lui. Ogni distorsione, “progressista” o “tradizionalista”, è abuso di potere e segno di immaturità.

Formarsi alla liturgia è auspicabile e doveroso. Lasciare che la liturgia ci plasmi come battezzati e come ministri è indispensabile. Soprattutto il suo scavo lento e avulso dalle logiche utilitaristiche ci introduce nello stile di Dio per il quale tutti siamo “servi inutili” come per il mondo è inutile e improduttiva la liturgia. Da questa apparente inutilità, che è sinonimo di libera e generosa donazione, scaturisce la sorgente e la forza del nostro ministero:

Renditi conto di ciò che farai,
imita ciò che celebrerai,
conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore.

don Loris Della Pietra

Santa Giustina - Centro Papa Luciani
20-10-2022