2 Re 5, 14-17; Salmo 97; 2 Tm 2, 8-13; Lc 17, 11-19
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
C’è un tornare indietro che è un rivisitare il cammino del tempo, le stagioni della vita, il decorso della storia. Ed è un riscoprire e un ricomprendere il nostro passato per diventarne parte di nuovo, per cogliere in profondità il nostro appartenervi con il cuore, con la nostra vita.
Vajont 9 ottobre 1963 è scritto nelle rughe di questa popolazione. Appare nella fisionomia dei più giovani, anche di chi – come quel Samaritano straniero di cui ci raccontato il Vangelo di oggi – è venuto dopo e da altri territori per ricominciare, per non arrestare la strada della vita.
Sì, siamo qui ora, in questo giardino di memoria convocati da tanti familiari, amici, conoscenti, paesani che travolti dalla furia dell’acque e del fango – un cataclisma di violenza non privo della responsabilità umana che ancora ci turba profondamente – stanno continuando a deporre nelle nostre mani una testimonianza simile a quella che abbiamo raccolto dalla parola viva di Paolo nella prima lettura:
Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Sono parole della fede in Gesù Cristo che non suonano estranee ai nostri orecchi. Non sono parole di proselitismo, ma in profondità cogliamo in esse un’indicazione dell’inestimabile valore della vita, della storia, del creato, di questa natura, “nostra casa comune”.
Se moriamo con lui, con lui anche vivremo.
Chiediamoci: quale vita stiamo donandoci gli uni gli altri? Quali luoghi per la vita stiamo costruendo? A quali fini e scopi stiamo consegnando le nostre esistenze? Quale futuro stiamo predisponendo per chi verrà dopo di noi, dei nostri figli?
La parola non incatenata di cui attesta Paolo è parola di vita, di futuro, di ecologia integrale, di casa comune da costruire… Per noi discepoli di Gesù è anche quel Vangelo per il quale Paolo ha sofferto.
Ed è proprio nel racconto evangelico di oggi un annuncio di guarigione dalle ferite che ognuno di noi può riscontrare, ovunque, nella nostra carne come nella società come anche nella natura.
Colpisce l’immagine del cammino così intensa e così vicina alle nostre vicende di vita. C’è Gesù che attraversa una terra straniera ma che egli ama. Al suo camminare corrisponde quello di dieci feriti dalla vita e dalla società – il racconto parla di lebbra – ed è proprio nella scelta di mettersi in cammino, di cercare e, poi, di incontrare che inizia una guarigione.
È un’opera grande guarire e ricostruire, ma è possibile:
«Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Occorre andare, ripartire, aprire nuove strade…
Straordinario il racconto: non basta questa guarigione per sentirsi “salvi”.
Da straniero quell’unico samaritano ritorna: loda, si prostra, ringrazia… Ecco una vita risuscitata, una storia salvata…
I nostri fratelli e sorelle del 9 ottobre 1963, sì quelli del Vajont, ci incoraggiano oggi a rimetterci in cammino a ritornare lì dove anche noi siamo sollecitati a ringraziare…
Nel racconto del Vangelo è Gesù stesso a dare loro voce. Ci dicono: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Apriamo, dunque, nuove strade, ripartiamo con nuovi cammini…
«Andate […]». E mentre essi andavano, furono purificati.
Così nel brano del Vangelo. Tutto ciò che è importante e decisivo avviene nel camminare, nel saper incontrare, nel poter chiedere, nel saper coinvolgersi…