Is 60,1-6; Sal 71(72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
In una giornata uggiosa come quella odierna, possiamo riconoscere il contesto a cui fa riferimento il profeta Isaia: «La tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli».
Questa profezia coglie anche il difficile momento che i popoli stanno attraversando. Le manifestazioni di impossibile convivenza che il nostro mondo sta esprimendo, contraddicono quanto l’Epifania del Signore ci fa celebrare. Abbiamo amaramente riscontrato incandescenza e crudezza di rapporti fino alla vicendevole negazione. Sono i giorni in cui abbiamo preparato e celebrato il Natale del Signore.
L’evangelista Matteo narrando di alcuni Magi, provenienti da oriente e diretti a Gerusalemme, ci sembra voglia aprire un varco, rendere possibile un itinerario, approntare un orizzonte altro e nuovo. Provvidenzialmente il loro desiderio, la spinta che ne deriva e l’inattaccabile ricerca che li anima fanno sì che possano giungere proprio lì dove cova una logica contraria, fatta di impostura, di arroganza, di potere distorto, di violenza cieca: «Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”».
In realtà questa è una narrazione luminosissima questa, pur nella sua esilità, nella sua alternatività, nel fatto di sembrare ingenua e rischiosa. Ma proprio l’inaspettata vicenda di «alcuni magi» che vengono misteriosamente «da oriente a Gerusalemme» con una domanda fuori luogo, annunciatrice di una nascita, portatrice di una promessa di vita, ben rappresentata da una stella che brilla nella notte… proprio questa sorprendente vicenda giunge a dare compimento a un passato bloccato nella sua pesantezza e a indicare un futuro da “adorare”. Questo verbo “adorare” indica il contrario di tutto ciò che il profeta Isaia ha definito “tenebra che ricopre la terra”, “nebbia fitta che avvolge i popoli”. “Adorare” è il camminare spontaneo dei Magi, il loro ricercare fiducioso e carico di emozione e desiderio; il loro andare incontro, presentarsi, chiedere, suscitare e condividere attesa, lasciarsi stupire da una stella, portare se stessi in dono, ossia il loro consegnarsi nell’amore… Forse oggi la parola che più si addice per esprimere quel loro «siamo venuti ad adorarlo» e che descrive la scena in cui i Magi provano «una gioia grandissima», entrano «nella casa», vedono «il bambino con Maria sua madre, si prostrano e lo adorano. Poi aprono i loro scrigni e gli offrono in dono oro, incenso e mirra» è proprio “consegnarsi nell’amore”. Penso che Matteo, anzi il Vangelo stesso, ci chieda oggi di ispirarci ai Magi.
Poco fa nell’annuncio delle celebrazioni, ci è stato detto: «Nei ritmi e nelle vicende del tempo ricordiamo e viviamo i misteri della salvezza» e, dopo aver enunciato i giorni delle celebrazioni, ci è stato ricordato che «la Chiesa pellegrina sulla terra proclama la Pasqua del Signore», tutto questo è una “consegna nell’amore” in cui siamo noi stessi immersi e che ci è prospettata come quel cammino che i Magi stessi hanno intrapreso.
Forse nel contesto di sfida in cui oggi la Chiesa è fortemente messa alla prova e invitata ad essere “pellegrina” come i Magi e non “seduta in trono” come Erode o nei seggi di insegnamento o di comando come «i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo», siamo sollecitati a “consegnarci nell’amore”. Non è arrendevolezza nella verità, ma è creatività di vita, è libertà evangelica, è fatica di semina, è attesa fiduciosa dinnanzi al mistero “manifestato per grazia”, è “palpitazione e dilatazione del cuore” come dice Isaia, è condividere la «stessa eredità», «formare lo stesso corpo», «essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» come detto nella lettera agli Efesini, anche qui, ora. È poi – come per i Magi avvertiti in sogno – fare ritorno ai nostri luoghi di vita.