Nel 1° anniversario della morte di don Giuseppe Zanon

Omelia nel Seminario di Padova
28-10-2019

Ef 2,19-22; Sal 18; Lc 6,12-19

In questa casa del Seminario diventa particolare e commosso il ricordo di d. Giuseppe Zanon nella circostanza del I anniversario della sua morte. In questo antico e grande edificio, la sua persona appariva “inversamente proporzionale”.

Mi colpisce questa sproporzione della nostra vita rispetto alle dimensioni della storia e delle sue grandi azioni e opere. Don Giuseppe era “sproporzionato”: cercava e ritrovava sempre il seme della vita, delle persone, degli eventi, dei legami, della fede, della realtà… Tutto ciò appariva “piccola cosa”, trascurabile… e, invece, lui lo coltivava con premurosa e sapiente cura. Ci credeva.

Mi pare bello questo pensiero che sembra veicolato dalla Parola di Dio che la liturgia ci ha offerto in questa festa degli apostoli Simone e Giuda.

Pronunciare e chiamare dei nomi, come ha fatto Gesù – da Simone, cambiato in Pietro, a Giuda Iscariota – è un’operazione in cui si sceglie il particolare, l’originale e il concreto di ogni persona. Ci si affida alla vicenda fragile e contingente di un uomo, di una donna, di un bambino, di un giovane, di un anziano… Ma giungere al nome particolare, significa accedere al DNA di tutta l’esistenza e di ogni frutto che ne maturerà.

Don Giuseppe quasi mai partiva dai principi. Non si esponeva con grandi proclami. Non gli era consueto elaborate teorie. E, invece, si faceva pellegrino per raccogliere il seme caduto lungo la strada o tra le spine, o nei luoghi sassosi. E, poi, coltivava come se fosse nella “messe abbondante”.

Gli inizi – come l’Incarnazione – possono sconcertare. Gesù ha molto apprezzato gli inizi, ogni piccolo inizio. E sono, poi, diventati il lievito del suo dono compiuto. Sono barlumi di luce che si accendono nella notte.

Secondo il racconto di Luca, Gesù «se ne andò sul monte», passandovi «tutta la notte pregando Dio». Attendere, vegliare, iniziare, ricominciare… sono intuizioni e logiche del Vangelo.

Anche don Giuseppe si è lasciato ammaestrare così. Era uomo delle aurore, che a volte tardavano a venire; prete dai mille inizi… Usava l’ironia per aprire brecce ovunque.

Noi con lui, non ci siamo vergognati di avere tra le mani “non molto di più” di alcuni frammenti, da cui ripartire: «Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».

È ancora il racconto evangelico a permetterci di sostare nel ricordo di d. Giuseppe. Vi è descritto «un luogo pianeggiante» dove Gesù arriva e si ferma. Egli è con i Dodici. C’è «una gran folla di discepoli e gran moltitudine di gente». Il fermarsi di Gesù è emblematico. Capiamo che egli così si lascia incontrare. Sembra sciogliersi e allargarsi in un grande abbraccio. Gesù è come una casa ospitale. L’evangelista – spostando lo sguardo da Gesù a tutti coloro che gli stavano attorno – dice due cose di ciò che succede: «erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti».

Sono due pennellate che svelano l’originalità e la qualità del quadro: ascolto e guarigione.

Il racconto evangelico ha mostrato che la chiamata dei Dodici approda nella distesa dell’ascolto. Dovremmo immaginare i 12 nella cura e nella premura verso la folla di discepoli e la moltitudine della gente convenuta: Gesù, infatti, doveva essere ascoltato!

Questo darsi e premurarsi e, nello stesso tempo, questo scostarsi e togliersi di mezzo da parte degli apostoli, affinché tutti possano ascoltare Gesù e avere libero accesso a lui, è diventata la “forma evangelica di vita” di d. Giuseppe. Ricordo quanto si dovette lavorare con lui sull’ascolto, al fine di ripensare il tutto della formazione.

Ed ecco la seconda pennellata di questa suggestiva scena: tutti erano venuti per essere guariti.

In essa don Giuseppe si ritrovava. Possiamo riconoscervi la sua ecclesiologia: la Chiesa è come un “pronto soccorso”, diceva.

È inimmaginabile quanta guarigione ha veicolato don Giuseppe. In questo ha preso alla lettera il Vangelo. Spesso egli ci ha spiazzati. Disarmato com’era, ma anche nella sua indomita resistenza, d. Giuseppe non ha mai tralasciato di gettare un seme e un inizio di guarigione, in nome del Vangelo.

L’evangelista, avvertendoci che tutta la folla cercava di toccare Gesù, ci mostra l’unica cosa che, nella nostra vita di discepoli e di chiamati al ministero, motiva tutto ciò che facciamo: «Da Gesù usciva una forza che guariva tutti».

Don Giuseppe ce l’ha indicato, in forma più radicale e sofferta, negli ultimi suoi difficili giorni: a quella forza si è aggrappato.

Possiamo riconoscere, nel salmo 18 che abbiamo pregato, quello che abbiamo ricevuto e imparato da lui: «Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio».

Così è stato di d. Giuseppe.