Don Sirio, la tua Chiesa – in cui sei stato generato alla fede e, poi, nel ministero presbiterale – è qui convenuta nei tuoi luoghi di origine, ad Auronzo di Cadore, dove tu hai chiesto di depositare i segni della tua vita e del tuo ministero: quel corpo che negli ultimi giorni ti ha portato a compiere il tratto più arduo del tuo cammino in questa vicenda umana.
Siamo qui come Chiesa che ha accolto ieri una parola rassicurante dal suo Signore: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Noi raccogliamo in questa parola quello che di te ci hai donato e consegnato. Sono tantissime persone che tu in mille situazioni hai incontrato, iniziandole e accompagnandole in questa esperienza di amore del Padre.
Siamo qui anche come presbiterio di questa Chiesa: scruta, pure, dal tuo mistero, i volti di questi amici preti a cui tu hai dato molto di quanto hai ricevuto, hai cercato, hai sospirato, hai costruito. Sono certo che custodiranno come balsamo di guarigione e di consolazione quanto hai loro donato.
Sono qui i tuoi familiari, fratello, sorelle, nipoti…: a loro la nostra Chiesa dice una parola di riconoscenza, promette una preghiera, scorge in loro i tratti del tuo volto austero e penetrante.
È qui poi – con tutto l’affetto che tu solo potrai raccontare al Signore – la famiglia che ti ha accarezzato con tenerezza ammirabile, in particolare, nei giorni difficili della malattia: don Piero e le tue suore… assieme alle persone che ti hanno sostenuto nell’ultimo insidioso sentiero della tua dimora tra noi; la dottoressa Padoin in particolare. Noi non siamo in grado di esprimere loro tutta la gratitudine che la situazione richiederebbe. Sappiamo che lo farai tu per noi, nei modi e nelle forme in cui la Pasqua di Gesù è grazia e risurrezione.
Permetti che io possa dire: sono qui anch’io. In uno strano combinarsi delle nostre storie, sei tra i primi presbiteri di questa Chiesa che io ho incontrato e amato… Ricordo quel tramonto coloratissimo in cui per la prima volta sono giunto al santuario del Nevegal per salutarti. Sono entrato in casa e stavi pregando il rosario con don Pietro e le suore. Ti sei alzato. Ho scorto in te un’imponenza che mi ha impressionato… Custodisco le tue parole lucide e chiaroveggenti, venate di una consapevolezza che tu stavi acquisendo su questo ultimo tratto della tua vicenda. In una successiva visita ti ho trovato al termine dell’Eucaristia celebrata in casa, proclamavi il Magnificat. Immagino che “Maria nostra sorella”, come tu l’hai definita, stava indicandoti un significato altro delle grandi cose che il Signore aveva fatto in te.
Nell’imbarazzo di questo momento, ritorno alle tue parole che mi hai detto con una consegna netta e senza tregua: «Al mio funerale ti chiedo di commentare il Vangelo».
Sì, è stato “vangelo” il tuo sussurrare ripetutamente: «Grazie… auguri…» nelle due ultime visite, con quel sottile soffio di voce che sembrava alitare le parole stesse di Gesù: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi…» (Mt 11,28).
E, poi, sono state “vangelo” le tue lacrime che hanno irrigato i solchi della tua incomprensibile sofferenza interiore. Veicolavano la parola “altra” che abbiamo più volte ascoltato in queste domeniche dal libro dell’Apocalisse: «E [Dio] asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).
Tu ci hai raccontato di un Dio chino e prono dinnanzi a ciascuno, intento a raccogliere ed asciugare le nostre lacrime. Anche tu hai cercato di farlo, affascinato dalla misericordia materna, paterna, amicale, sponsale di Dio: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,31b-32).
Il tuo pianto di sofferenza ti sgorgava dal cuore, dalla mente, dalle amicizie accolte, accompagnate e costruite, dalla stessa Parola che hai meditato e dal Mistero che hai celebrato e sono diventate lacrime di commozione: «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,37-39).
Grazie, perché ci suggerisci di riandare ancora, anzi di nuovo, al Vangelo di Gesù.
Siamo tutti lì, in quello stesso «primo giorno della settimana», con i segni del nostro passato e la sensazione di allontanarci da Gerusalemme, luogo delle grandi attese e scenario del nostro sogno; come quei due discepoli, un po’ persi nelle nostre discussioni, con uno sguardo che a fatica sa riconoscere l’accaduto.
Luca aveva già descritto le donne al mattino di quello stesso giorno: «Si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato» (Lc 24,1). Sì, tra le nostre mani ci sono quegli aromi che abbiamo potuto e saputo preparare. Ognuno di noi li ha con sé. Ma non bastano per riaccendere la speranza e riprendere fiducia.
Un altro incontro diventa così necessario. Potremmo riconoscerlo nella modalità di un “vangelo vissuto” anche nella tua vicenda, don Sirio.
Nella seconda scena del Vangelo il protagonista è quello strano personaggio, dapprima straniero, che si fa compagno di viaggio. In una prima azione, dopo il senso di perdita e di disorientamento che aveva preso i due discepoli, quel compagno di viaggio si è messo lui ad aprire le Scritture, a spiegarle.
Questo passaggio è decisivo. Si sta preparando qualcosa di nuovo.
Con una certa spontaneità e immediatezza i due discepoli diventano insistenti con quel compagno che sembrava dovesse andare più lontano. Racconta l’evangelista: «Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”» (Lc 24,29).
È in quel momento che il pellegrino entra e rimane con loro, si mette a tavola, prende il pane, recita la benedizione, spezza il pane e lo dà a loro. Poi sparisce dalla loro vista.
Grazie, don Sirio: anche tu sei stato discepolo di Emmaus, hai conversato, discusso, andando da Gerusalemme ad Emmaus…, con fatiche e delusioni…
Ma sei stato insistente, come i due discepoli. Hai detto a quel pellegrino, nostro compagno di viaggio, di fermarsi. Gliel’hai detto anche per molti di noi, in momenti e modi che forse non conosceremo mai, ma gliel’hai detto: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Lc 24,29).
Sì, Lui, il Crocifisso Risorto, è rimasto con noi. Ed ecco si mette a tavola, prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e ce lo dona. E così sparisce dalla nostra vista, perché noi riprendiamo il cammino verso Gerusalemme e ci riuniamo con quanti il Vangelo ha già raccolto.
Don Sirio, aiuta questa tua Chiesa di cui sei stato presbitero e, dunque, aiuta ciascuno di noi a manifestare con il cuore, nella fraternità e nella speranza, come i discepoli a Gerusalemme: «Davvero il Signore è risorto!» (Lc 24,34).