Nelle esequie di don Tarsillo Bernardi

Chiesa parrocchiale di Lamon
03-02-2021

Eb  11,1-2.8-19; SR Lc 1,68-75; Mc 4,35-41

Negli ultimi giorni prima che don Tarsillo concludesse il suo pellegrinaggio di fede, si è scatenata una tempesta nel suo fisico già provato e già debilitato. Nella sua barca così assediata don Tarsillo non era solo. Ci avverte di questa compagnia inaspettata il racconto evangelico del giorno in cui don Tarsillo ha compiuto la sua ultima traversata: «In quel medesimo giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”. E congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca». Bella questa fraterna intimità: «Lo presero con sé, così com’era». Don Tarsillo ha preso il “suo” Signore nella sua barca oramai lacerata. E nello scatenarsi della tempesta hanno navigato così: in una solitudine di intimità e di grazia, in un brivido di vita infragilita e addolorata, in una consegna vicendevole a cui si ha il coraggio e la libertà di abbandonarsi solo «per fede», come ci ha descritto la Lettera agli Ebrei che abbiamo proclamato: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio».

Tutti voi che siete qui – per primi voi stessi suoi familiari, te don Liviano e quanti l’avete conosciuto, apprezzato, amato – siete stati accompagnati e sostenuti da don Tarsillo per questa sua fede. Vi ha voluto bene per fede e, in tante situazioni difficili, che si sono manifestate nella sua stessa pelle diventata tanto fragile e ferita, egli ha pazientato nella fede.

Don Tarsillo non si è mai assiso su una cattedra d’insegnamento o su una poltrona di potere per insegnarvi la fede, ma l’ha vissuta e condivisa con voi, come si condivide il pane quotidiano, fino all’attraversamento della sofferenza, fino alla condizione di colui che ha dato parte di sé pur di aiutare e di non lasciare sprovvisto l’altro. Nelle ultime stagioni della sua vita e dell’esercizio del ministero, don Tarsillo si è posto semplicemente accanto – accanto al fratello don Liviano, poi a don Fabrizio, infine a don Giorgio – e non ha prevaricato, ha preferito un umile servizio pastorale dove riversava bontà, mitezza, sopportazione, disponibilità. Nel turbamento dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti e nella precarietà psico-fisica indotta delle varie fasi di malattia, ha sempre inteso servire questo territorio, questi altopiani a cui ha riservato benedizione e passione, in particolare per chi aveva bisogno e soffriva. Questi territori sono diventati per lui, come recita la Lettera agli Ebrei, quella «terra promessa» da soggiornare «per fede». Sì, potremmo dire – similmente ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe – «abitando sotto le tende», perché non si è mai impossessato di queste terre, non si è mai imposto di autorità, ma con fede le ha servite e amate.

Abbiamo ascoltato: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava». Questo lasciarsi andare, affidandosi, era il suo stile.

Ci sono, poi, i momenti più familiari, più fraterni, più domestici da ricordare. Don Tarsillo li ha fatti diventare l’esperienza, terra a terra, del suo voler bene: io ricordo il minestrone e il risotto con i fagioli – mai assaggiato prima – che lui ha preparato con cura, appositamente e nel suo silenzioso operare, qui in canonica di Lamon.

Ricordo la sua passione per la storia di queste comunità. In essa coglieva sempre il vissuto della popolazione, non era epica dei grandi eventi. E raccoglieva le memorie del passato come fossero reliquie da venerare. Ed ecco, ora, nel cuore di ognuno c’è spazio per una memoria riconoscente, commossa, semplice di don Tarsillo. In questi giorni della sua ultima traversata nella Pedemontana feltrina, nell’altopiano di Sovramonte, qui tra le comunità di Lamon, Arina e San Donato, la preghiera e l’affetto donati a lui sono un incenso che sale, in questa celebrazione delle esequie, a Dio, ma che don Tarsillo, con tutto se stesso, ha reso profumato.

Noi ora ammiriamo quella piccola barca che ha già fatto la sua traversata nella tempesta sopravvenuta, e in essa consideriamo il sonno di Gesù sorpreso anche dal nostro grido: «Maestro, non ti importa che siamo perduti?».

In realtà, in quella stessa barca, nell’intimità di una fiducia vicendevole, è già avvenuto quello scambio d’amore in cui il sonno dell’uno è diventato la promessa di risurrezione dell’altro.