«E i soldati intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: “Salve, re dei Giudei!”. E gli davano schiaffi» (Gv 19,2-3). L’evangelista Marco racconta inoltre che gli sputavano addosso. Anche Matteo narra di quella corona di spine. Solo Luca non ne accenna.
Il fatto che tre evangelisti ricordino quella corona di spine testimonia che quanto successe a Gesù in quella tremenda notte colpì parecchio i testimoni, in particolare i discepoli.
Il contesto è di beffa, di presa in giro, di violenza e di calunnia. A volte ci possiamo chiedere: ma come si può cadere così in basso? Dove può precipitare questa nostra umanità?
Gesù attraversa questa umiliazione, accanto al dolore interiore e fisico. Gesù non prende un’altra strada rispetto a quello che aveva praticato e insegnato fino a quel momento in Galilea, in Samaria, in Giudea, nei territori pagani.
Gesù persevera nella sua scelta di vita, anzi la porta a maturazione e compimento. Alle insistenti e tormentate domande di Pilato, egli risponde così: «Sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità».
Un canto del profeta Isaia – che questa sera abbiamo proclamato nell’azione liturgica della Passione del Signore – appare come un preannuncio, un’anticipazione di tale condizione di sofferenza. Di lui si dice: «era sfigurato come uomo […] disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima […] lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato […] trafitto […] schiacciato […] maltrattato […] condotto al macello […] toto di mezzo […] eliminato dalla terra dei viventi, percosso a morte […] sepolto con gli empi…».
Il segno della corona di spine di cui ci testimoniano i vangeli, è un appello, per noi stasera, a “sentire” la barbarie che si è scatenata contro Gesù. È un sentire che sgorga da un atteggiamento di fede e da un atto d’amore: occorre trapiantarlo nella rete del nostro vissuto e dei rapporti che intratteniamo. Come esprimerlo? Si tratta di avere sguardo, cuore, coraggio, responsabilità di fronte a qualsiasi segno che ci ricordi quanto capitato a Gesù.
Il nostro camminare con la reliquia della spina di Gesù, con il simbolo della corona intrecciata sul suo capo, ci impegna a non accettare e non volere che si perda lo stile di umanità che è attenzione, cura, premura, rispetto, servizio da prestare e, poi, dignità da riconoscere ad ogni persona, ben al di là di paure immotivate, di sospetti senza ragione, di un linguaggio tagliente e ideologizzato con cui – senza che ce ne accorgiamo – contribuiremo a porre barbarie su barbarie.
Papa Francesco ci ha aiutato a considerare le implicanze di una parola che testifica tante situazioni di vita e descrive una parte considerevole di società: “scarti umani”.
Stasera Gesù, coronato di spine, ci appare come il “primogenito” di una schiera numerosissima di “scarti umani”. «Ho sete», ha pronunciato alla fine sulla croce.
La nostra fede ci chiede di continuare sulla scia della sua “inversione di marcia”: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». Da qui può ricominciare l’umanità!