Per la professione di suor Marta Ronzani

Omelia nella professione perpetua - Vigo di Cadore
08-09-2019

Sap 9,13-18; Sal 89(90); Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33

Gesù aveva appena raccontato la parabola degli invitati a nozze che preferirono dedicarsi ai loro impegni, ai loro affari e ai loro affetti, scusando così la loro assenza alla «grande cena» a cui erano stati invitati.

C’è ora nel racconto odierno «una folla numerosa» che «andava da Gesù». A partire dall’insegnamento della parabola, Gesù pone davanti a tutta questa gente la possibilità che poi essa rinunci di partecipare al momento culmine, quello della “grande cena”.

Egli usa subito un’altra immagine per rappresentare questo momento decisivo: portare la propria croce e andare dietro a lui. Ed ecco la vera questione: come si può seguirlo senza ribaltare i propri affetti, senza affezionarsi a lui, senza una fedeltà capace di sfidare ogni altra attrazione, senza creare quel rapporto d’amore per cui lo scegli e basta, anche quando altre spinte ti porterebbero altrove…?

Carissima suor Marta la tua storia di donna è giunta a Lui. Non sei solo “invitata”, è necessario che tu ti metta al suo seguito, creando sempre il legame con Lui, anche quando Egli sembra eludere la tua presa su di Lui. Ti devi spingere fino a quella “grande cena” di cui si dice nella parabola.

Oggi la sua parola lascia intendere che si tratta di una “grande decisione”, di quelle che cambiano la vita e che richiedono di impegnarsi fino in fondo. Il Vangelo non nasconde che tutto questo comporta il “portare la propria croce”.

Non ci è estraneo tutto questo. Sappiamo bene che “amare” è così. Non può ridursi all’essere invitati: amare è anche sfondare il proprio guscio, uscire da una storia – seppure bella – che ci ha preceduto e ci ha preparati, al fine di creare un nuovo legame di fedeltà capace di non arrendersi…

Oggi sr Marta di Cristo sommo Sacerdote, compiendo la sua professione perpetua, mediante la famiglia religiosa delle Figlie della Chiesa, si immette in questa strada come discepola di Gesù, lo fa non restando semplicemente “invitata” ma si impegna ad entrare e partecipare alla “grande cena”.

La parola Chiesa e l’espressione “figlie della Chiesa” con cui si definiscono non sono un “di più” per queste nostre sorelle: è questo radicale – ossia casto, povero, obbediente – partecipare al discepolato di Gesù, a starci sul cammino della croce da portare. Chiesa è semplicemente “Lui da seguire”, fino alla “grande cena”. Chiamarsi “figlie della Chiesa” è dichiararsi “membra vive del corpo che è la Chiesa”.

Al n. 4 delle Costituzioni è scritto: «Il nome Figlie della Chiesa esprime il nostro Carisma: conoscere, amare e testimoniare la Chiesa; farla conoscere e farla amare ; pregare, lavorare e soffrire per essa, a imitazione di Gesù, che «amò la Chiesa e per essa sacrificò se stesso».

Come si diceva di voi Figlie della Chiesa, a Santo Stefano nel trevigiano, all’inizio della vostra storia di Istituto: «Le suore che pregano, le suore che sorridono, le suore povere». Lo ricorda la vostra Fondatrice.

Ed ecco la parola della fondatrice, sr Maria Oliva: «Carissime figliuole mie, tutte sapete che per circa otto anni, fino al riconoscimento giuridico della nostra Famiglia, non abbiamo avuto altra regola che l’“Ama e fa’ quello che vuoi” di S. Agostino e non abbiamo desiderato altro».

Al n. 8 delle Costituzioni si esplicita così la vostra consacrazione: «Membra vive della Chiesa per la grazia consacratrice del Battesimo, accogliamo la vita consacrata come un dono divino che Gesù Cristo ha fatto alla sua Chiesa. Mediante i consigli evangelici, professati con voto pubblico, scegliamo in modo libero e radicale Dio sommamente amato; siamo così nella storia segno profetico dei beni futuri e ci sentiamo congiunte in modo speciale alla Chiesa e al suo mistero».

Paolo scrivendo a Filemone ci intriga su che cosa comporti quell’amore in più per il Signore Gesù. Questa breve lettera mi pare ci riporti alle dimensioni concrete dell’essere discepoli di Gesù. Ci descrive la croce della fraternità/sororità, ma è una croce di salvezza di tutto il nostro spessore umano, specialmente del territorio più minato, quello degli affetti. Paolo parla di “catene per il Vangelo” in cui egli si trova. L’altro lo si genera nelle catene: «Ti prego per Onesimo, figlio mio, che ho generato nelle catene… lui che mi sta tanto a cuore».

Ed ecco il punto debole del nostro vivere da cristiani, da discepoli, il punto irriconoscibile delle nostre comunità, dell’amicizia che deve abitare nei nostri rapporti.

Ed ecco ciò prospetta Paolo: riavere l’altro «non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo… sia come uomo sia come fratello nel Signore».

E conclude Paolo: «Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso».

La preghiera cha abbiamo fatto nel salmo responsoriale raccolga ora i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre attese, partecipando al rito di consacrazione e di professione perpetua di sr Marta: «Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni. Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda».