Solennità Corpo e Sangue di Cristo

Cattedrale di Belluno
14-06-2020

Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1 Cor 10,16-17; Gv 6,51-58

Sembra quasi un’appendice questa celebrazione dopo il tempo di Pasqua, sfociato nella Pentecoste e rilanciato dalla celebrazione del mistero d’amore della Trinità. La celebrazione del “Corpo e Sangue di Cristo”, oggi, sembra riportarci all’ultima cena di Gesù, prima della sua morte.

Tra le testimonianze scritte più antiche, c’è la lettera di Paolo ai Corinzi. Paolo non aveva partecipato all’ultima cena di Gesù, ma l’ha ricevuta come ricordo vivo. Le sue espressioni che abbiamo ascoltato ci colpiscono. Egli parla del «calice della benedizione che noi benediciamo» e, poi, del «pane che noi spezziamo». E riconosce che sono «comunione con il sangue di Cristo» e «comunione con il corpo di Cristo». Paolo ci racconta di qualcosa di dinamico che ci coinvolge. Oltre a degli elementi fisici c’è un’azione viva e ci sono delle persone coinvolte. C’è un calice da benedire e che offre benedizione e c’è un pane che deve essere spezzato, tanto che fin dagli inizi questa nostra celebrazione era definita dallo “spezzare il pane”. Paolo ci dice che tutto questo è finalizzato a far sì che noi diventiamo «benché molti, un solo corpo».

Il nostro “fare la comunione” non può, in questa visione biblica, ridursi al prendere la comunione per sentirsi a posto. Per Paolo innanzitutto “partecipare all’unico pane” è accogliere un dono che ci precede e che ci trascende per divenire noi “un solo corpo”. Lo diremo, tra poco, nella preghiera eucaristica: «Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo». Il nostro “fare la comunione” non è riducibile al “prendere la comunione”! Il sacramento del corpo e del sangue del Signore ci immette nel dono della sua vita, come ci ha ricordato l’evangelista Giovanni. È Gesù a svelarsi come «il pane vivo disceso dal cielo». Lui viene da Dio: ed è questa una storia d’amore – la più grande, la più salvifica – che apre alla vita, quella vera, quella di cui tutti siamo affamati e assetati. Gesù ci dice: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Gesù qui lega la sua persona e la sua missione alla morte che subirà la sua carne e per cui verserà il suo sangue. Siamo in una travolgente storia d’amore che raccoglie la vita – frantumata ed esposta alla morte – del mondo.

In ogni eucaristia noi viviamo questa apertura, questa immissione, questo essere partecipi in tale Amore più grande. Sono ancora le parole di Gesù a consegnarci questo mistero: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me». L’espressione forte e paradossale di Gesù – «Chi mangia di me» o anche: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue» – racconta e rende presente e viva questa storia d’amore che per noi inizia con la chiamata gratuita di Dio ad entrare in comunione con Lui. Nel suo vertice c’è il dono della vita di Cristo: «La mia carne per la vita del mondo». Qui è raccolta anche la nostra infedeltà, la nostra incapacità ad amare come lui. Qui è toccato e guarito anche il nostro male, il nostro peccato.

Oggi la prima lettura – riprendendo le parole che Mosè avrebbe detto al popolo di Dio in procinto di entrare nella Terra promessa – ci invita a ricordare e a vivere, come azione in atto e come storia che ancora ci coinvolge, la fedeltà di Dio, il suo camminare con noi: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto […]. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire […] dalla condizione servile; […] che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

E per noi oggi: ricordati che il Signore Gesù ha dato tutto di sé «per la vita del mondo»; ricordati del suo amore e che egli non ti ha abbandonato e ti ama. Questo è l’Eucaristia che celebriamo!

Permettete la citazione di un passaggio dell’omelia di papa Francesco, stamane nella celebrazione dell’Eucaristia:

«Con l’Eucaristia il Signore guarisce anche la nostra memoria negativa, quella negatività che viene tante volte nel nostro cuore. Il Signore guarisce questa memoria negativa, che porta sempre a galla le cose che non vanno e ci lascia in testa la triste idea che non siamo buoni a nulla, che facciamo solo errori, che siamo “sbagliati”. Gesù viene a dirci che non è così. Egli è contento di farsi intimo a noi e, ogni volta che lo riceviamo, ci ricorda che siamo preziosi: siamo gli invitati attesi al suo banchetto, i commensali che desidera. E non solo perché Lui è generoso, ma perché è davvero innamorato di noi: vede e ama il bello e il buono che siamo. Il Signore sa che il male e i peccati non sono la nostra identità; sono malattie, infezioni. E viene a curarle con l’Eucaristia, che contiene gli anticorpi per la nostra memoria malata di negatività. Con Gesù possiamo immunizzarci dalla tristezza. Sempre avremo davanti agli occhi le nostre cadute, le fatiche, i problemi a casa e al lavoro, i sogni non realizzati. Ma il loro peso non ci schiaccerà perché, più in profondità, c’è Gesù che ci incoraggia col suo amore. Ecco la forza dell’Eucaristia, che ci trasforma in portatori di Dio: portatori di gioia, non di negatività. Possiamo chiederci, noi che andiamo a Messa, che cosa portiamo al mondo? Le nostre tristezze, le nostre amarezze o la gioia del Signore? Facciamo la Comunione e poi andiamo avanti a lamentarci, a criticare e a piangerci addosso? Ma questo non migliora nulla, mentre la gioia del Signore cambia la vita».