«Un corpo mi hai preparato»

Ritiro spirituale per presbiteri e diaconi
26-03-2020

In questo giorno di “ritiro spirituale” che avevamo programmato e che non è stato possibile realizzare, desidero mettere a disposizione questa “traccia spirituale” per i confratelli presbiteri e diaconi. È una condivisione su quanto ci è più caro: il vangelo che è sempre innanzitutto “vocazione” per poi farsi “discepolato”. È, dunque, “grazia” che suscita la “gratuità della nostra libertà” e si fa scelta di vita e testimonianza da condividere.

Questo mio desiderio porta con sé la consapevolezza della fatica di questi giorni di emergenza e di ciò che ci sta capitando. Sento che ognuno di noi deve ricominciare dai fondamenti e dalle motivazioni degli inizi. «Non è mai successa una cosa così…»: quante volte mi sono sentito dire questa “verità”!

C’è una fiducia reciproca, una stima vicendevole da ritrovare in questi momenti di distacco e di sospensione: lo auguro a me stesso e a tutti voi e per questo anche pregheremo.

Vi propongo due quadri in questa traccia spirituale. Il primo è composto dalla scena di questi giorni di emergenza sanitaria, che mi pare sia anche socio-culturale e, per noi, ecclesiale. Considero in esso alcuni aspetti che ci hanno preoccupato e disorientato. Il secondo quadro è una immersione nel racconto dell’annunciazione del Signore che abbiamo rivissuto e celebrato nel momento in cui la situazione di emergenza ci ha mostrato un panorama di gravità mondiale e, per il nostro paese, di grosse difficoltà e paure. Cosa può significare il mistero dell’incarnazione nel bel mezzo di questa stagione di epidemia e pandemia?

  1. In questi giorni…

Cerchiamo parole e immagini per poter rappresentare il vissuto di questi giorni. In questo la Bibbia ci aiuta e ci viene incontro: «Stiamo entrando, come Giona nel ventre della balena, nelle viscere imprevedibili e confuse di una distopia» (José Tolentino Mendonça).

Il racconto di Giona, che viene ingoiato da un grosso pesce, è accostato – in questa citazione – ad una parola desueta: “distopia” che indica una realtà massimamente spiacevole, un ‘luogo cattivo’, uno stato di cose fortemente negativo in contrasto con uno scenario desiderato e atteso.

Potremmo tutti rivisitare i sentimenti provati in questi giorni di emergenza sanitaria, i pensieri che ne sono derivati, le parole con cui ci siamo espressi, le interpretazioni che abbiamo azzardato. Tutti noi ci siamo trovati, come Giona, nel ventre della balena. Non ci nascondiamo il fatto di essere stati realmente “spiazzati”.

In questo “ventre della balena” ci siamo confrontati con noi stessi innanzitutto, ma anche con il Signore a cui abbiamo votato la nostra vita nel ministero presbiterale. Non solo, ci siamo anche interrogati sulla nostra appartenenza alla Chiesa nel concreto delle comunità parrocchiali a cui siamo stati affidati. Alcuni di noi hanno istintivamente provato nel loro cuore un forte disagio, avendo avuto la sensazione che la fede nella sua manifestazione comunitaria fosse messa in balia di un nuovo dominio chiamato “emergenza sanitaria”. Finora era stata custodita, conservata, difesa e promossa con passione e sacrificio. Qualcuno si è sentito dire da persone molto motivate nella fede: «Voi, pastori, avete barattato la fede nel compromesso con l’istituzione civile e statale che intende liquidarla». Più grave ancora è stata l’accusa, rivolta ai pastori: «Non ci avete difeso in ciò che è la più grande risorsa della nostra vita: i sacramenti, la fede e i valori che ne derivano». È stato, per davvero, un inizio tempestoso.

Nel ventre della balena ci siamo sentiti “rigettati”. Forse ciascuno di noi, nel suo intimo, in coscienza, si è sentito battagliato da spinte opposte. Ed ecco la domanda che è affiorata in noi: tutto quello che abbiamo finora costruito e per cui ci siamo spesi, dove va a finire? Qualcuno mi ha detto con grande sofferenza interiore: «Ciò che sta succedendo è l’ultimo colpo inferto per demolire la Chiesa».

È vero che non è successo solo questo, però è realistico ammettere che nel nostro vissuto pastorale abbiamo provato questi disagi e siamo stati attraversati da fratture di sentimenti e di pensieri.

È bene non passarci sopra e sostare in essi.

Nella prima domenica di Quaresima, avvicinandoci alle tentazioni a cui Gesù è stato sottoposto, ci siamo imbattuti in un Dio “strano” che riserva una sua rivelazione particolare proprio nel momento difficile della tentazione. In quei frangenti, quando si è tirati da parti opposte, sedotti da desideri e bisogni che non si riesce ad ordinare, quando si sta per precipitare, ecco Dio si offre, si rivela, si comunica. È difficile scegliere un verbo adeguato per esprimere questo stare di Dio nella nostra tentazione, di fronte a ciascuno di noi. In questi momenti Dio ci appare così tanto oscurato da non poterlo percepire. Incalzano, invece, attrazioni opposte. Ma proprio in questo deserto “luogo di serpenti velenosi”, come lo definisce la Bibbia, Dio rischia con te, non ti lascia, intende raccogliere le briciole della tua vita, cercare i frammenti del tuo ministero.

Sto pensando ad un’altra narrazione della Bibbia, precisamente al libro della Genesi. Al capitolo 32 è raccontato un evento emblematico e decisivo per Giacobbe: una misteriosa lotta avvenuta nel cuore della notte, in un guado. “Lotta, notte, guado” sono immagini potentissime per esprimere situazioni esistenziali, spirituali e mistiche decisive. Tutti custodiamo nel nostro intimo, nei nostri affetti, nel nostro spirito, nella nostra carne situazioni simili.

È ora significativo ritornare a quel racconto, immergerci, forse anche prendervi parte, entrare nei personaggi, lasciarsi condurre in quella dinamica di lotta, nel suo persistere, nelle mosse strategiche che in essa avvengono.

25Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». 29Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (Gn 32, 25-31).

Entrare in questo racconto esige che ci abbandoniamo alla “lotta con Dio”. Concretamente per noi, oggi, nella situazione in cui siamo, comporta che guardiamo in faccia a ciò che ci ha fatto male nei giorni in cui è iniziata questa “emergenza sanitaria” e che abbiamo percepito in contrapposizione a noi, forse come un nemico. Ci ha travolti la cascata insistente di decreti ministeriali e di indicazioni pastorali che chiedevano sospensioni e tagli su ciò che più ci stava a cuore, in particolare per la nostra vicenda di credenti, per gli affetti ecclesiali che abbiamo coltivato e per quanto abbiamo donato nel ministero.

Quando e su che cosa la lotta è stata più serrata? Dove non volevamo mollare? Sono domande che permettono di conoscerci più a fondo e ci predispongono a lasciarci incontrare da Dio.

Il racconto di Gn 32 segnala il persistere della lotta fino al punto in cui Giacobbe osa chiedere di essere benedetto, poiché voleva uscirne con uno spiraglio di bene.

Se in questi giorni abbiamo lottato, vale anche la pena chiederci: quando davanti a noi si è aperto uno squarcio e si è accesa una promessa? Quale breccia, quale fessura mi inducono a confidare? Quando “colui che lottava con me” è divenuto “colui che mi avrebbe potuto benedire”? Quando centra Dio, è sempre possibile il passaggio dalla lotta alla benedizione.

Quale sua benedizione, ora, è necessario custodire? Su questo dovremmo aiutarci insieme: potranno essere i prossimi passi da fare.

Nel racconto di Gn 32 c’è un ulteriore segno che ha la sua attualità nel contesto dell’emergenza che ci coinvolge: è la slogatura al femore di Giacobbe. Appare come una ferita che rimane, ma se rimarginata diventa vivibile, con la quale starci, convivere, anche eventualmente zoppicando.  Giacobbe supera il guado, ne viene fuori, sì, slogato, ma anche benedetto. Forse in questi giorni di emergenza – il guado da attraversare! – stiamo sperimentando anche noi una combinazione di slogatura e di benedizione. È un tempo da vivere e da non perdere.

In questo momento la preghiera biblica può aiutarci. Nel mentre ci rivolgiamo al Dio dei nostri padri – Abramo, Isacco, Giacobbe – lasciamo che tale preghiera affini il nostro spirito, abiti la nostra interiorità, sia unzione per il nostro corpo, accompagni le emozioni, i sentimenti, i pensieri che ci attraversano e ci avvolgono. La preghiera si fa attiva in noi e noi le diventiamo partner, fino al punto che ci lasciamo condurre da essa, per amore, in libera scelta, con responsabilità.

Per fare questo attingiamo alla preghiera di Giona che innalza dal ventre della balena. Ritorniamo a questa efficace immagine della condizione nella quale ci riconosciamo per ciò che stiamo vivendo, chiusi nelle nostre case, con uno stile di rapporti sociali e di relazioni pastorali trattenuti al massimo, in quella “distopia” che abbiamo sperimentato, entrando in questa fase di emergenza sanitaria.

Nel libro di Giona al capitolo 2, dopo il suo permanere di tre giorni e tre notti nel ventre del grosso pesce che l’aveva inghiottito, «Giona pregò il Signore, suo Dio, 3e disse:

«Nella mia angoscia ho invocato il Signore
ed egli mi ha risposto;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.
4Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare,
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.
5Io dicevo: «Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio».
6Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l’abisso mi ha avvolto,
l’alga si è avvinta al mio capo.
7Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore, mio Dio.
8Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.
La mia preghiera è giunta fino a te,
fino al tuo santo tempio.
9Quelli che servono idoli falsi
abbandonano il loro amore.
10Ma io con voce di lode
offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore».

11E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia».

Ciascuno di noi oggi si ritrova “rigettato sulla spiaggia”, a riprendere il proprio cammino con il peso alleggerito di una benedizione che sarà sempre con noi, portandola assieme alle ferite per le quali l’abbiamo chiesta e ricevuta.

Noi non conosciamo il tempo e il modo con cui Dio ascolta la nostra preghiera, ma siamo noi stessi con la preghiera ad entrare nelle sue dimore, ad abitare nel suo Tempio.

  1. «Un corpo mi hai preparato»

Questa settimana è iniziata sotto il segno della paura del contagio virale e, di conseguenza, delle ristrettezze di vita quotidiana a cui le disposizioni ministeriali ci hanno obbligato. La situazione drammatica dei numeri che crescevano in Lombardia, sia dei contagiati sia delle vittime, ci ha addolorato profondamente. Sono scenari che non possiamo rimuovere. Con essi dobbiamo fare i conti, misuraci, sentirci interpellati. Fanno parte della nostra stessa umanità. Siamo presi dentro le morse di un chiaro-scuro che ci scombina l’animo. Nel contesto socio-culturale tra i più avanzati e organizzati del nostro Paese, si è manifestata una fragilità e una precarietà inaspettate, riducendo ad impotenza la scienza, l’intelligenza, la tecnologia, l’economia. Ci rendiamo conto che tante pagine della vicenda biblica non sono immaginari del passato, ma “chiavi di lettura” di una condizione di vita attuale, che può conoscere e sperimentare limite, pericolo e sconfitta.

Eppure proprio all’inizio di questa settimana, nella liturgia della Parola, siamo stati sorpresi da un annuncio, a prima vista, fuori luogo: «Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio. […] Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia. Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza, poiché il più giovane morirà a cento anni» (Is 65,17-20).

Seguiva uno dei salmi più “pasquali”, il 29:

«Signore, hai fatto risalire
la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere
perché non scendessi nella fossa. […]
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio,
ti renderò grazie per sempre».

Anche il vangelo di quel giorno era nel segno della vita che riprende. A Cana di Galilea al funzionario del re che chiedeva aiuto per suo figlio che stava per morire, Gesù dice: «Va’, tuo figlio vive» (Gv 4,50). Ed era il secondo segno compiuto da Gesù in Galilea. Il primo era avvenuto sempre lì, in una festa di nozze, dove Gesù aveva mutato l’acqua in vino e, come annota l’evangelista: «Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2,11).

Mi sono chiesto che cosa potesse preannunciare una parola così piena di vita, tanto da profetizzare “cieli nuovi e terra nuova”. Da quella Parola siamo passati alla giornata di ieri in cui si è celebrata la solennità dell’Annunciazione del Signore. Mi è sembrato di riconoscervi un segno particolare, forse quello che più si addice alle nostre situazioni di vita. Ho colto nella celebrazione dell’Annunciazione del Signore un’adeguata spiritualità da rilanciare e vagliare, per i giorni che viviamo, per il tempo che si apre davanti a noi. È una spiritualità degli inizi, del lievito nascosto nell’impasto della farina con l’acqua, del minuscolo seme di senape che diventerà un grande albero. Forse proprio questa spiritualità aiuta noi discepoli di Gesù ad acquisire credibilità evangelica. Quello che è avvenuto nell’Annunciazione del Signore, in particolare a Maria è forse la via sulla quale immetterci in questi giorni difficili, in questa inaspettata impotenza in cui siamo precipitati e in quello che potremmo intravedere come un nuovo inizio da cui ripartire.

Noi oggi – particolarmente noi ministri ordinati – insieme alle nostre comunità, in questa Chiesa di Belluno-Feltre, ci aggrappiamo alle parole e ai sentimenti di sorpresa e di turbamento di Maria dinnanzi all’annuncio che le viene portato. Lei si confida così: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». In questi giorni siamo lì in quella domanda spesso inquieta: “cosa avverrà?”. E c’è la nostra gente, ci sono le nostre comunità, i nostri anziani e, soprattutto, ci sono i bambini e i giovani. Tutti ci siamo. E poi il “non conosco” confidato da Maria è la nostra condizione nella pandemia che si sta imponendo in questi giorni. «Come avverrà?» è la domanda del nostro vivere e, anche, la domanda della nostra fede. Rispetto ad un passato dove ci tenevamo di più ai risvolti vincenti, pomposi, strepitosi di un certo modo di vivere da credenti, oggi siamo come Maria, sorpresi e turbati, nella condizione di ricollocarci agli inizi, addirittura spogli di tanti accumuli anche di cose belle che abbiamo potuto realizzare. Tutto il nostro mondo interiore è chiamato a nuovi cominciamenti.

Mentre pregavamo, l’altra sera, i Primi Vespri, mi sembrava che la lettura breve dovesse essere riscritta. Si trattava dei primi tre versetti della Prima Lettera di Giovanni. Nel momento dell’annunciazione avrei espresso così la testimonianza apostolica: «Vi annunziamo ciò che era fin da principio, ciò che noi “non” abbiamo udito, ciò che noi “non” abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi “non” abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani “non” hanno toccato…».

Oggi più che mai sentiamo che nel nostro cammino di Chiesa accanto a ciò che abbiamo visto, udito, contemplato, toccato con mano, occorre accogliere e interiorizzare ciò che rimane nascosto, velato, non ancora compiuto. Ed è quel mistero di incarnazione che rappresenta lo stile di Dio, la sua scelta di noi, il suo operare con noi, la sua chiamata, il ministero stesso che ci affida, il nostro abitare con amore e per amore questo mondo. Oggi, radicati nel mistero dell’incarnazione, ci è possibile ancora ricominciare con il credere, lo sperare, l’amare.

Da qui nasce uno sguardo nuovo che sa vivere il turbamento del tempo e degli eventi in cui siamo. Come è stato per Maria. Anche il nostro ministero non può essere se non nel segno dell’incarnazione: più nascosto, più interiore, più relazionale, più in divenire, più empatico e capace di intrecciarsi con i fili delle persone e degli eventi. Mi sembra che alcune preferenze che Dio manifesta in questo inizio dell’incarnazione ci riguardino da vicino.

Dio si racconta totalmente in una vicenda umana, appunto in Maria e nel suo “non conoscere uomo”, in un intreccio di situazioni che non necessariamente sono vincenti, ma restano velate, “incarnate”: «Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,36-37).

Possiamo fare pensieri e dire parole, in questi giorni, molto lontani da questo paradigma di Dio. Dio ci sta accompagnando su ciò che “sembra impossibile” a noi umani. Egli entra così nelle nostre dinamiche. Non si contrappone a noi, non nega l’umano come spesso abbiamo osato ribadire: «Entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. […]. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà’”» (Eb 10,5.7).

La lettera agli Ebrei immagina il venire al mondo di Gesù rappresentato da questa sua ammirata confidenza rivolta al Padre: «Un corpo invece mi hai preparato».

Può essere di aiuto calarci nella vicenda umanissima di Maria nel suo rapporto con Dio che manifesta con il suo “eccomi”. E da parte di Dio c’è un’infinità di pudore, di delicatezza e di tenerezza. Il Dio che giunge all’incarnazione è un Dio di mille premure. Spesso questo dato ci sfugge, nel nostro celebrare, nel nostro annunciare, nei nostri rapporti, in ciò che tanto ci prende nel nostro ministero.

Dio pone la sua azione “di incarnazione” in tutto l’umano, come ha fatto con Maria; non in esclusiva, ma intrecciando la sua vicenda con quella di Elisabetta. La discrezione, la cura relazionale, il senso della libertà dell’altro, la promozione della responsabilità altrui, lo sguardo di umanità su tutti è ciò che avviene nell’annunciazione del Signore. Ed è il mistero dell’incarnazione che si compie nel mondo, nella Chiesa, in noi.

L’angelo rassicura Maria così: «La potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra». Forse, proprio in questi giorni, siamo nelle circostanze per ripensare la “potenza di Dio” come un premuroso coprirci e proteggerci con la sua ombra. Essa copre il corpo di questa nostra umanità. Abitando questa avventura di mondo, anche noi siamo chiamati ad assumere nel nostro ministero, oltre che nel nostro discepolato, questo stile di incarnazione di Dio. Spetterà al Figlio di Dio, nato da Maria, con il suo compimento pasquale, indicare e donare nel tessuto della storia i “nuovi cieli e la nuova terra”.

Auguro a ciascuno di assumere l’annuncio dell’angelo come ispirazione, in questi momenti inediti e di ripartenza, per il proprio cammino di vita e di fede e per il servizio ministeriale a cui siamo chiamati insieme: vivere e portare ovunque quel «Rallégrati» con cui l’angelo ha sorpreso Maria nella sua casa di Nazareth e consegnare, nel cuore di chi incontriamo e ci è affidato, il «Non temere» che Maria ha ricevuto come promessa.

+ Renato, vescovo