A cura di don Ezio Del Favero

107 – La città divorata dal ghiacciaio

Un alpinista [...] ha affermato di aver visto sporgere dal ghiaccio la punta di un campanile!

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Un tempo, i ghiacci del Monte Rosa non ricoprivano ancora i fondali delle vallate. Al loro posto vi erano dei pascoli fiorenti, dei campi coltivati, addirittura delle abitazioni. Dicono che proprio lì sorgesse la leggendaria Félik, cittadina assai prospera e opulenta. Gli abitanti erano degli instancabili lavoratori, non si fermavano mai, producevano giorno e notte e avevano instaurato vantaggiosi rapporti commerciali con gli abitanti delle vallate vicine attraverso i valichi e servendosi degli animali da soma per trasportare carichi di ogni tipo senza difficoltà. Di conseguenza, in quella cittadina era nata un’attività prosperosa e redditizia, così da arricchirne gli abitanti.

Tuttavia, col crescere della ricchezza, via via le persone perdettero il rispetto di Dio e favorirono nel loro cuore la crescita del Male, sotto forma di superbia e vanità, tanto da pensare che nulla e nessuno li avrebbe mai potuti rovinare o distruggere. Uomini e donne iniziarono a spendere i guadagni in inutili lussi e capricci: scale fatte con forme di formaggio, tetti ricoperti di lamine d’oro, vestiari sfarzosi, le modeste baite convertite in palazzi riccamente decorati, le frugali cene con polenta e brodo trasformate in sontuosi banchetti con decine di commensali per far vedere “io sono ricco!”. Le donne passarono dai semplici abiti di montagna ai vestiti sfarzosi e alla moda, mentre gli uomini erano disposti a tutto per incrementare i guadagni, anche adottando sotterfugi e trabocchetti per arricchirsi sempre più, anche a scapito degli altri.

Una sera, in quella cittadina tra le montagne arrivò un viandante, anziano, sporco e malandato, che chiese ospitalità. In un contesto come quello, ci sarebbe voluto un niente per spalancare la porta di casa allo straniero intirizzito che chiedeva solamente un tozzo di pane. E invece, no! “Chi me lo fa fare?” – “Non me ne viene mica niente!” – “Ci manca solo che poi questo poveraccio prenda l’andazzo e ritorni ancora!” – “Che cosa avrà combinato per trovarsi in queste condizioni di bisogno?”… Insomma, tutti gli abitanti di Félik rifiutarono di aiutare il viandante, senza dargli neanche una crosta di pan secco da mangiare oltre l’uscio della porta.

Nessuno diede peso allo sguardo solenne dello straniero, quando l’indomani mattina, prima di abbandonare la città, li maledisse: «Dio Padre Onnipotente vi punirà per i vostri peccati!». E nessuno diede peso nemmeno a quella pioggerellina gelata e fitta che cominciò a cadere subito dopo quella maledizione. Andandosene, scrutando il cielo divenuto cupo, il vecchio avvertì gli abitanti: «Se continuerà a nevicare per sette giorni e l’ultimo giorno la neve diventerà rossa, ciò vorrà dire che l’ira di Dio si è scagliata su di voi, per punire la vostra superbia!». La gente scoppiò a ridere e a sbeffeggiare il vecchio per quanto prevedeva.

La pioggerellina si trasformò in neve e si mise a cadere fitta fitta, per giorni e giorni, fino a sommergere e a gelare il paesaggio, i campi, le strade, le stalle, i pollai, le conigliere, le abitazioni, le legnaie e qualsiasi altro edificio, condannando a morte gli animali intirizziti dal freddo. Ai cittadini cominciò a scarseggiare la legna per far ardere il camino. Poi la neve crebbe al punto da ostruire i valichi e bloccare le vie di comunicazione, accumulandosi al punto da sommergere completamente tutte le abitazioni della città.

Una settimana dopo, la neve iniziò a cambiare colore e divenne di un rosso acceso, simile al sangue. Gli abitanti, terrorizzati, si ricordarono delle parole dello straniero «Se continuerà a nevicare e l’ultimo giorno la neve diventerà rossa, ciò vorrà dire che l’ira di Dio si è scagliata su di voi!». L’ultimo a vedere la città di Félik sarebbe stato il giovane curato, rifugiatosi sulla punta del campanile. E quello che vide, una volta affacciatosi dalla torre campanaria, era terrificante: l’intera città era interamente ricoperta da un enorme, mortale manto di neve ghiacciata e rossa come il sangue. Solamente, qua e là, spuntavano degli isolati comignoli, dai quali fuoriusciva un fumo sempre più lieve e debole.

Ancora oggi, nelle notti più oscure e fredde, gli spiriti degli abitanti di quella che era una città si aggirano lungo le nevi del ghiacciaio del Félik, invocando pietà ed espiando con sofferenze atroci le colpe commesse in vita. Un alpinista, addirittura, sicuramente annebbiato dalla fatica, ha affermato di aver visto sporgere dal ghiaccio la punta di un campanile.

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La parabola – raccolta in Val d’Aosta – insegna a vivere nel rispetto di Dio, per esorcizzare la crescita del Male nei cuori sotto forma di superbia e vanità, lungi dal pensare, come i cittadini di Félix: «Nulla e nessuno potrà mai rovinarci o distruggerci!».