A cura di don Claudio Centa

Registri di Cancelleria – 1

Registri di Cancelleria dei vescovi di Belluno Giulio Berlendis (1653-1694) e Giovanni Francesco Bembo (1694-1720)

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ADB, I, Atti vescovili e curiali, b. 8, pezzi 8/1 e 8/2

Descrizione fisica

Viste per alcune puntate le serie archivistiche delle visite pastorali di Feltre e di Belluno, dopo l’interruzione di una settimana, passiamo a vedere un genere di pezzi archivistici presenti sia nell’Archivio Diocesano di Belluno che in quello di Feltre: il registro di cancelleria.

Il registro è un fascicolo o un libro costituito da più fogli rilegati e numerati progressivamente, in cui vengono annotati (tecnicamente “regestati”) o trascritti per esteso documenti prodotti o ricevuti da un ufficio, nel nostro caso la cancelleria vescovile. In questo genere di registro venivano annotate, come in un diario, anche le attività del vescovo. In nessuno dei due archivi essi costituiscono una serie omogenea, in quanto non tutti i vescovi, ma soprattutto i loro curiali (ad essi va attribuita la responsabilità circa il modo di lavorare della cancelleria), se ne servirono.

Nella foto vediamo due registri della cancelleria di Belluno che coprono, senza soluzione di continuità, un arco di 70 anni a cavallo del Seicento e del Settecento:

Pezzo 8/1: registro cartaceo, cm 29 x 43. Composto di cinque fascicoli rilegati con liste di cuoio. Senza coperta. Fogli 100. Cartolazione originaria: 1[8] – 92[99]
Dal 25 gennaio 1654 (ingresso del vescovo Berlendis a Belluno) al 24 giugno 1663.

Pezzo 8/2: registro cartaceo, cm 33 x 44,5. Coperta in cuoio marrone lavorato. Fogli 433 con cartolazione originaria.
1r-185v: registro di cancelleria del vescovo Giulio Berlendis dal 18 settembre 1660 al 4 agosto 1693.
202r-427v: registro di cancelleria del vescovo Giovanni Francesco Bembo dal 28 giugno 1694 (ingresso in diocesi) al 7 luglio 1715.

Importanza documentaria

Nel registro di entrambi i vescovi troviamo questi tre diversi generi di documentazione:

il regesto o la trascrizione del dispositivo dei documenti in uscita dalla cancelleria; la trascrizione per esteso dei documenti ricevuti dalla cancelleria; la notizia storica più o meno dettagliata di atti del vescovo: sacre ordinazioni, partenza per la visita pastorale, svolgimento del sinodo diocesano.

Mi soffermo sul primo vescovo, Giulio Berlendis, il cui episcopato fu il più lungo nella storia della diocesi di Belluno: 41 anni. La sua attività pastorale è registrata in 277 fogli delle dimensioni che sopra ho riportato.

Anche solo ad una rapida scorsa, si può vedere che durante il suo lungo episcopato egli ebbe attenzione particolare per il suo clero: ricorrenti le direttive disciplinari per dare l’indirizzo di una maggiore austerità di vita, vigilante l’attenzione per avere un clero culturalmente preparato, solerte la cura per il Seminario.

Andiamo a vedere le cose più da vicino. Se scorriamo i fogli del registro del suo primo anno di episcopato vediamo che in quei 20 fogli sono spalmati nel corso dell’anno provvedimenti significativi per la vita del clero bellunese.

Il 17 febbraio 1654 (poco più di un mese dopo il suo arrivo in diocesi) promulga un decreto generale sulla disciplina del clero (ff. 3v-5v). Le righe del preambolo arrivano a toccare toni drammatici. Egli ricorda gli sforzi fatti dai suoi predecessori per qualificare la vita del clero e lamenta la ricaduta di tanti preti in abitudini di vita rilassate. Il decreto dà direttive chiare circa il dovuto decoro in cui devono svolgersi le celebrazioni liturgiche. L’atro importante insieme di norme riguarda la vita dei sacerdoti, i quali sia nel loro aspetto esteriore che nelle abitudini di vita si devono distinguere dai fedeli laici: le norme riguardano l’abito ecclesiastico e la tonsura; circa le abitudini quotidiane, i preti non frequenteranno le osterie, non si metteranno in maschera a carnevale, non parteciperanno a gare con cavalli o tornei, smetteranno le battute di caccia.

Cinque giorni dopo, il 22 febbraio (f. 10r), Berlendis spicca due monitori contro Michele Bianchi, pievano dell’Alpago, e contro Vincenzo Doglioni, curato di Farra d’Alpago, ai quali ingiunge che entro 15 giorni tornino a risiedere nelle loro rispettive parrocchie, pena essere privati dell’incarico pastorale. Si noti: a novant’anni di distanza dal concilio di Trento, che quale norma disciplinare più stringente aveva stabilito l’obbligo grave di residenza per i vescovi e i parroci, vi erano preti che cominciavano ad avere abitudini rilassate anche su questo punto fondamentale della prassi pastorale.

Il 20 aprile (f. 14r-v) Berlendis ordinava che, in osservanza di quanto era stato disposto dal vescovo Giovanni Tommaso Malloni, suo predecessore, nel sinodo diocesano (1639), l’arcidiacono di Agordo si attivasse ad organizzare le riunioni mensili, nelle quali i sacerdoti di tutto l’Agordino dovevano studiare e risolvere i casi di coscienza.

Passano due settimane e il 4 maggio (f. 14v), Berlendis emanò un editto col quale ingiunse a tutti i beneficiati della diocesi (quindi canonici, parroci, rettori di chiese) di presentarsi entro cinque giorni al vescovo per esibirgli i documenti che comprovavano il regolare possesso dei benefici di cui erano titolari.

In autunno, rientrato a Belluno dopo la sua prima visita pastorale alla diocesi, Berlendis diede disposizioni circa lo svolgimento delle riunioni mensili dei sacerdoti per studiare i casi di coscienza (ff. 18v-19r); era il 4 novembre.

Il registro è importante in quanto riporta in estrema sintesi gli esami dei chierici in vista degli ordini sacri. Per accedere alla tonsura, ai quattro ordini minori e ai tre maggiori, ad ogni passaggio i chierici venivano esaminati con due prove alle quali Berlendis assisteva quasi sempre. La prima di esse era nel canto gregoriano, la seconda in grammatica latina e dottrina cristiana: il registro riporta accanto ai nomi dei chierici la classifica approbatus o reprobatus. In quest’ultimo caso il chierico non veniva ammesso all’ordine e… doveva applicarsi a studiare di più.

Il registro è importante anche perché riporta i verbali (non i decreti) dei sinodi diocesani presieduti da Berlendis. Ora questi verbali (lo vedremo prossimamente anche per Feltre) sono una fonte preziosa per avere un quadro statistico sul clero diocesano. Infatti i verbali si aprono con l’elenco dei preti della diocesi per poterne registrare l’assenza o la presenza. Nessun’altra fonte è così sicura e dettagliata per attestarci entità del clero diocesano, nomi e incarichi dei singoli in un determinato periodo. In occasione del secondo sinodo, svolto all’inizio di luglio del 1677, si apprende che nella città di Belluno e nel suburbio (ho elencato le curazie in una puntata precedente) vivevano 66 preti. Il numero è notevole tenuto conto che il rettore Ermolao Tiepolo nel suo censimento di vent’anni prima (è il dato cronologicamente più vicino) constatò che la popolazione di Belluno ammontava a 4.194 abitanti. In altri termini vi era un prete ogni 64 abitanti. I preti sparsi nel territorio diocesano in servizio alle parrocchie erano 39. Insomma un totale di 105 sacerdoti. Si trova confermato un fenomeno diffuso nell’Italia del Seicento e Settecento che vide un progressivo aumento del clero rispetto al Cinquecento.

Notevole il numero di sacerdoti che non avevano svolto solamente gli studi in Seminario, ma che erano in possesso di gradi accademici. Tra i dieci canonici del Capitolo vi erano quattro dottori in utroque iure e un dottore in teologia: la metà dei canonici. Tra gli altri 56 preti della città si contavano 10 dottori in utroque iure, tra i quali il curato di Cusighe e quello di San Fermo. Tra i sacerdoti diocesani ad essere in possesso di gradi accademici erano Pietro Pedecastello, pievano dell’Alpago, e Giovanni Battista Bondi, curato di Voltago, che erano dottori in teologia, mentre Pietro de Zanna, pievano di Castion, era dottore in utroque iure.

Il vescovo Berlendis

Se qualcuno è giunto a leggere fino a questo punto quanto ho scritto, avrà forse la curiosità di sapere chi era questo presule.

Giulio Berlendis nacque il 23 gennaio 1616 ad Alzano (BG) in una famiglia della nobiltà bergamasca giunta ad un livello di notevole ricchezza grazie al commercio della seta. Giulio venne destinato dalla famiglia alla vita ecclesiastica; assai giovane divenne canonico di Bergamo e nel frattempo compì gli studi all’Università di Bologna ove si addottorò in utroque iure. Ricevette i primi incarichi di responsabilità nel governo diocesano di Bergamo, ma ben presto fu portato a valicare i limiti di quella che pur era una delle più importanti città della Repubblica veneta. Venne infatti coinvolto nel servizio diplomatico della Serenissima come membro, con incarichi di seconda fila, in una legazione a Parigi e poi in una a Roma. Qui riscosse la simpatia del potente cardinale veneziano Federico Corner. Il porporato intervenne presso Papa Innocenzo X, per ottenere l’assegnazione della diocesi di Belluno al trentatreenne ecclesiastico bergamasco. La sede di Belluno era vacante per la morte di Tommaso Malloni, deceduto il 7 febbraio 1649, appena due mesi dopo il Papa si risolse di assegnare la diocesi a Berlendis. Trascorsero però quattro anni prima che la nomina ufficializzata e resa pubblica nel concistoro del 6 ottobre 1653: Berlendis, che in famiglia aveva respirato l’oculatezza nell’amministrazione dei beni materiali, volle che prima venissero risolte alcune questioni riguardanti la libera riscossione delle rendite del suo episcopato. A 37 anni, Giulio Berlendis era a pieno titolo vescovo di Belluno ove fece il suo ingresso, come abbiamo visto, il 25 gennaio 1654.

Nel suo più che quarantennale governo della diocesi di Belluno ebbe particolare sollecitudine ad innalzare il livello culturale e disciplinare del clero: incentivando il Seminario, al quale diede un regolamento, promuovendo le riunioni mensili del clero diocesano nelle foranie, emanando decreti disciplinari. Ma fu soprattutto nei tre sinodi, tenuti a scadenza decennale (1655, 1667, 1678) che emanò provvedimenti sulla disciplina del clero e sulla liturgia.

Coloro che tra il clero gli procurarono gravi grattacapi e gli fecero spesso una acre resistenza furono i canonici della cattedrale, per questioni di giurisdizione parrocchiale e di cerimoniale. Nel suo testamento Berlendis inferse al Capitolo un grave smacco: con un’ingente somma di denaro istituì una commissaria i cui proventi dovevano essere destinati per metà ai sacerdoti della città privi di beneficio, a condizione che partecipassero all’ufficiatura corale della cattedrale. Espressamente Berlendis dettava che dai proventi e dall’amministrazione della commissaria fossero esclusi i canonici e gli altri beneficiati. Per l’altra metà, i proventi dovevano essere distribuit dai due sacristi (parroci) della cattedrale ai poveri della città. Non posso tacere che un canonista ostracizzato dalla nostra diocesi, studioso di valore, stigmatizzava come grave illecito che il Capitolo intervenisse nella nomina dei sacerdoti di questa commissaria e addirittura pretendesse di prender parte con un suo rappresentante alle votazioni delle sedute dei berlendisti. Il protagonismo di qualcuno l’ebbe vinta sul rispetto del diritto.

Disponendo di cospicue risorse finanziarie, Berlendis fece importanti lavori di abbellimento sia all’episcopio che alla cattedrale.

Ricordo che mentre a Feltre durava la sede vacante (1681-1684) Berlendis intervenne a portare pace tra il Capitolo e il vicario capitolare, Vittore Gera, nipote del vescovo defunto. L’impressione che suscitò fu tale che sia il Capitolo che il Maggior Consiglio caldeggiarono il trasferimento di Berlendis da Belluno a Feltre. Venne invece nominato vescovo il giovane Antonio dei conti di Polcenigo, che Berlendis raccomandò al Capitolo feltrino come ecclesiastico di elevata spiritualità. Ma questa è un’altra storia.

Berlendis chiudeva la sua esistenza terrena, laddove l’aveva iniziata, nella nativa Alzano; era il 21 ottobre 1693.