In montagna era arrivato l’inverno, la stagione in cui il sole tramonta presto.
L’Orso s’incamminava verso la sua tana. Il Riccio si era già rincantucciato nel suo nido di foglie e muschio. I Volatili erano pronti a migrare verso il sud. Le prime a partire furono le Oche, che attraversarono in formazione il cielo pallido e grigio. Dopo di loro partirono gli Storni e le Rondini. L’unico a restare fu l’Usignolo, perché aveva un’ala rotta e non poteva volare. Guardava l’orizzonte dal suo nido sulla siepe e cantava malinconico: «Che cosa mi succederà? Come potrò adattarmi all’inverno, abituato come sono alla primavera quando canto sia di giorno che di notte?».
Il Barbagianni dal suo ramo bubbolò: «Volente o nolente, sarai costretto a restare qui insieme a noi volatili invernali!». «Ma io non conosco l’inverno!», si lamentò l’Usignolo. In effetti l’uccellino era abituato alle stagioni calde, al tepore del sole sulle piume, alla luce dorata e alla brezza estiva. Era abituato all’acqua dissetante del laghetto e alla natura rigogliosa che offre cibo in abbondanza. «Imparerai, piccolino, imparerai!», insistette il Barbagianni.
Giorno dopo giorno, il freddo si fece sempre più pungente. L’inverno aveva aperto le danze. Faceva così freddo che il laghetto ghiacciò e i comignoli delle casupole cominciarono a fumare. «E questa che cos’è?», cinguettò l’Usignolo quando il primo fiocco bianco si posò sulla sua coda. «Si chiama neve!», precisò il Coniglio.
I fiocchi cadevano sempre più fitti, finché seppellirono del tutto il nido dell’uccellino, che si lamentò: «Oh no! E adesso?». «Puoi venire a stare da me!», gli propose il Coniglio, che lo ospitò nel suo cunicolo e lo aiutò a costruirsi un lettuccio con le foglie secche. Quella notte fu buia e silenziosa, mentre l’Usignolo se ne stava accovacciato ascoltando i battiti del suo cuore. Che cosa sarebbe successo l’indomani?
L’inverno avanzava, il cibo scarseggiava. Ormai le creature del bosco non trovavano più nulla, nemmeno un semino. L’Usignolo poteva contare però sulla generosità dello Scoiattolo, che divideva volentieri le sue provviste con lui. E poi aveva imparato dai Picchi ad aspettare i bambini infagottati che venivano a riempire di semini la piccola mangiatoia che essi stessi avevano fabbricato.
I giorni passarono. L’Usignolo si era quasi abituato al freddo, allo scricchiolio del ghiaccio sui rami e al crepitio della neve sotto le sue zampette. Aveva imparato a procurarsi il cibo da solo e a rannicchiarsi al riparo dei cumuli di neve per proteggersi dal gelo. Piano piano stava imparando a conoscere l’inverno… così come le creature del bosco imparavano ad apprezzare il suo canto.
Andava tutto bene, finché un giorno scese all’improvviso un silenzio surreale e l’atmosfera si fece come sospesa. Stava arrivando la tempesta. Le creature del bosco si misero al riparo e aspettarono. «Che cos’è la tempesta?», chiese l’Usignolo, che conosceva solo il temporale estivo e la pioggia primaverile. «Vedrai e capirai!», bubbolò il Barbagianni, regalandogli qualcuna delle sue piume perché stesse al caldo. Il Coniglio e lo Scoiattolo gli procurarono un guscio di noce e lo imbottirono di pelliccia perché non si congelasse le zampine. La tempesta di neve arrivò e inghiottì ogni cosa in un vortice bianco. «Aiuto!», urlò l’uccellino spaventato. Uno stormo di Corvi gli volò incontro, gracchiando: «Cantaci una canzone!». Allora l’Usignolo, che fino a quel momento aveva cantato soltanto la dolcezza dell’estate, cantò l’inverno e la sua desolazione. E quando la tempesta finì, dell’inverno cantò anche l’incanto e la meraviglia.
Il paesaggio era sotto una bianca copertura brillante. Cristalli di ghiaccio pendevano dai tetti e i vetri delle casupole luccicavano di brina. Qua e là, sul candido manto, tra impronte e cumuli di neve, i bambini crearono dei pupazzi. Mentre, sotto la neve, si poteva quasi sentire il primo fremito di primavera.
Poi, un giorno, dalla neve fecero capolino dei fiorellini, che i paesani chiamavano “Bucaneve”. I rami degli alberi rinverdirono di germogli. Il grande Orso lasciò la sua tana. Anche il Riccio uscì. L’Usignolo, dal momento che la sua ala era guarita, poté riprendere il volo. Così, volando, si mise a cantare: «Ti saluto inverno… e bentornata primavera!». La sua voce squillava gioiosa nell’aria e tutte le creature del bosco lo ascoltavano incantate. L’Usignolo, che era sempre stato un uccellino primaverile, ora sapeva di essere diventato anche un uccellino invernale.
La parabola – tratta da un racconto della scrittrice americana Kate Banks – insegna ai deboli a non disperarsi, sull’esempio dell’Usignolo. E a chi ne avesse la possibilità insegna a prendersi cura delle creature più fragili.