L’anestesia è forse una delle più geniali invenzioni dell’intelletto umano: con un farmaco, si rende insensibile una data parte del corpo, in modo da poter operare senza pericolo di provocare reazioni di dolore e poter guarire in sicurezza. Senza anestesia, forse nessuno di noi andrebbe dal dentista e pochi si sottoporrebbero agli interventi: in medicina, l’anestesia è una grande conquista.
A volte, però, anche la fede rischia di essere usata come anestesia: grandi pensatori del passato l’hanno additata come “oppio dei popoli” perché si strumentalizzava la fede per sedare le ribellioni, mantenere lo status quo, far sì che le differenze sociali non sfociassero in lotte violente. A volte, credere ci torna utile per non fare la fatica di pensare, per non stare di fronte a quello che ci accade con responsabilità e con libertà, per non impegnarci più di tanto.
Tre sono i doni che Gesù ci confida di essere venuto a portare, con il vibrante, angosciato, desiderio di metterli in circolo subito, di farli fruttare, di farli diventare: il fuoco, il battesimo, la lacerazione. Ad un primo sguardo, questi “doni” potrebbero un po’ preoccuparci per la loro radicalità, per la loro forza, per la loro azione dirompente. Sappiamo bene che, quando l’incendio divampa, sono necessari giorni per poterlo controllare di nuovo; sappiamo che il battesimo di cui Gesù parla è la sua sofferenza e la morte di croce; sappiamo quanto male fa la divisione all’interno delle nostre case.
Gesù, in questo passaggio appassionato, non sta facendo un’apologia della violenza, né sta esaltando la divisione causata dal peccato, dalla cattiveria, dalla malevolenza e dalla rottura brusca dei rapporti. Sta semplicemente ricordando che il Vangelo, la fede che nasce dall’ascolto della Parola, non avalla il male, non scende a compromessi, non media con parole suadenti e tattiche sottili. Lo sguardo fisso su Gesù, «autore e perfezionatore della fede», porta i credenti a discernere il bene dal male, a schierarsi, a dare voce alle ingiustizie, a impegnarsi attivamente per migliorare le cose.
Chi crede non usa il Vangelo come una clava contro nessuno, ma come un fuoco, che riscalda, che illumina, che orienta; chi crede, sa che nell’acqua del battesimo è racchiusa la forza dello Spirito, capace di inventare sempre nuove vie di santità, sempre nuove strade di servizio, sempre nuove modalità di amare. Chi crede sa che la divisione va pazientemente sanata con la bellezza sanante del perdono, dell’ascolto, della cura.
L’Eucaristia che celebriamo è immersione nel fuoco, nel battesimo, nella divisione buona causata dal Vangelo: l’Eucaristia ci obbliga a prendere posizione, ci dà la forza di sopportare la solitudine che la fedeltà a Dio comporta, ci aiuta a vivere la fede come lievito di un mondo che siamo chiamati a costruire insieme. L’Eucaristia è antidoto a quell’anestesia del cuore che vediamo impadronirsi dei nostri paesi e delle nostre città.
Il Vangelo non è un gioco, né un pacificatore di coscienze: il Vangelo non ci fa dire mai: “Me ne frego, non è un problema mio, ci penseranno gli altri”, ma sempre: “Mi interessa, ci provo, posso dare una mano”. Ecco perché, con il cuore sofferente, siamo obbligati a interrogarci, a riflettere, da credenti, quando sentiamo – per esempio – che un pover’uomo viene ucciso per strada nell’indifferenza dei passanti, che filmano il cruento spettacolo invece di levare la loro voce e di schierarsi.
Ecco perché, accostandoci alla memoria viva della passione e morte di Cristo, chiediamo ancora, con desiderio ardente, prima di tutto per noi, il fuoco, il battesimo, la divisione che Gesù ha portato per noi: aurora di un mondo nuovo, sensibilità all’ennesima potenza, vita abbondante e piena. Altro che anestesia!