A cura di don Vito De Vido (1ª domenica di Avvento - anno C)

Alzare lo sguardo

«La speranza non delude» (Rm 5,5), è come l’acqua di un fiume che scorre

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Se camminiamo in uno dei nostri boschi siamo attirati dal gorgoglio dei ruscelli e dei torrenti, che ora dolcemente, ora con impeto scendono verso valle. L’immagine dell’acqua che dalla sorgente scende al mare è spinta continua a seguirne il corso a ritroso, per ritrovarci in alto, presso la fonte.

Il tempo dell’Avvento, che oggi cominciamo, è costante invito a ritornare lì da dove tutto ha avuto origine. Non tanto, e non solo la nascita di Cristo, ma a Dio. Quante volte i profeti ci richiamano al ritornare a Dio! Chi si dimentica di Dio, dimentica se stesso, dimentica il motivo per cui siamo su questa terra e ripone le sue certezze sulle cose materiali, o peggio ancora crede di avere qui stabile dimora!

Per accorgersi della salvezza, occorre distogliere lo sguardo dalla terra e saperlo indirizzare in alto. Così come chi desidera vedere il destino del corso del fiume: il futuro non sta nella foce, ma nella sorgente. «L’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quelle che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente» (Leonardo da Vinci).

Il cristiano non è colui che segue il corso del fiume, o della storia che passa, ma che si arrampica per abbeverarsi alla fonte, lì da dove ogni cosa ha avuto inizio. Un continuo sforzo per ritornare a Dio, origine e fonte di tutto ciò che esiste.

Ascoltando la Parola di Dio, noi sappiamo già come avverrà la fine. Conosciamo le ultime pagine del libro, l’ultimo episodio del grande film della vita su questa terra. La distruzione del mondo presente («passa la scena di questo mondo», 1Cor 7,31) non è l’ultimo capitolo, ma solo il penultimo, brevissimo, che annuncia il giorno senza tramonto, in cui avrà stabile dimora la giustizia (2Pt 3,13).

Se la nostra attenzione è rivolta solamente al Natale, è troppo poco. Ancora una volta guardiamo a quel che è stato e non a quello che sarà. Il cristiano è portatore di fiducia e di speranza. È questa la virtù che in questo nostro tempo siamo chiamati a vivere e a donare. Ogni vita nuova a cui assistiamo, specialmente se entra nel vissuto delle nostre famiglie è fonte di gioia e di speranza. Quante volte i dolori e le lacrime per la perdita di una persona cara, sono lenite e quasi cancellate dalla nascita di un bimbo nelle nostre famiglie, nelle nostre contrade. A volte, attraversando le viuzze dei nostri paesini, scorgiamo ben in alto e visibile, un bel fiocco azzurro o rosa: è il segno di una nuova nascita, in cui che lo vogliamo o meno anche il nostro cuore si rallegra. Quando mancano per lungo tempo queste “belle notizie” (è la radice della parola “evangelo”) ci sembra che la gioia si affievolisca, che non ci sia più nulla di preparare, progettare, condividere.

Sì, una vita nuova che arriva mette in moto non solo i genitori che l’accolgono, i nonni, i parenti, ma anche un paese intero, o almeno così dovrebbe essere. «Ci è stato dato un figlio!» (Is 9,5): è la bella notizia che riaccende il fuoco della speranza che covava sotto le ceneri, che soffocavano la brace. Il tempo dell’avvento, che oggi comincia, ci chiede di preparare non la mangiatoia di paglia e fieno, ma di offrire un cuore disposto a lasciarsi coinvolgere in questo desiderio di progettare ancora, di realizzare qualcosa di nuovo, di bello, e anche di solido.

Non possiamo e non volgiamo offrire ai nuovi nati un mondo in decadimento. È un po’ quello che stiamo vivendo oggi. Il nostro sguardo è fisso alla foce, guarda a quello che passa e non a quello che verrà, e che deve ancora venire. Quando la preoccupazione più grande della società e delle donne e degli uomini di oggi è progettare un presente a proprio misura, sulle proprie esigenze, incuranti di quale sia il bene integrale delle giovani generazioni, siamo ormai vicini alla foce, e lontanissimi dalla sorgente.

Il cristiano testimonia la necessità di prendersi cura di spirito, anima e corpo. È ugualmente nocivo e velenoso, far coincidere con il bene delle persone con uno solo di questi tre aspetti.

Un Natale solo spirituale, privo dell’attenzione verso i bisogni materiali dell’altro è illusione. Vivere un Natale solo materiale, diviso tra acquisto e scambio di doni, pranzi e cene, senza lasciar spazio all’intima gioia di sentirsi parte di una festa più grande è una gioia effimera, che andrà buttata con la carta da regalo e le confezioni dei panettoni.

Augurarsi un Natale vissuto solo nell’anima, senza lasciarci coinvolgere in un’attesa, una preparazione che si prenda cura di chi ci sta vicino, della parte più profonda di noi e anche del tempo felicemente condiviso con le persone amate sarebbe vivere un Natale monco, che manca della dimensione del ritorno a quella sorgente di vita nuova che proviene dal Verbo di Dio che per noi si fa carne, che per noi si fa pane, che è vita del cuore, ma anche della comunità.