A cura di don Renato De Vido (26ª domenica del tempo ordinario - anno A)

Chi ha fatto la volontà del Padre?

Dio si rallegra per una sola persona che all’ultimo momento si ravvede con sincerità

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«C’è più gioia in cielo per un solo peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Non potrebbe essere questo il frontespizio del paragone usato da Gesù? Dio si rallegra molto di più per una sola persona perfida che all’ultimo momento si ravvede con sincerità che non per una moltitudine di persone che presumono di essere a posto con la propria coscienza.

Evidentemente, come sempre, il Signore parla per tutti, benché talvolta sembri che gli stia davanti una certa categoria di persone.

1. Collocata quasi al centro del racconto c’è ancora una volta la vigna, il podere di famiglia. Non è una collocazione casuale, sia pensando che l’agricoltura, per gli ebrei, era diventata una forma di radicarsi nella terra data da Dio, sia perché in tutta la bibbia la vigna è un modo continuato di dire che Dio ama il suo popolo proprio come un padre di famiglia custodisce la sua proprietà.

La richiesta di quel padre, dunque, è un prolungamento di attenzione alla vita di famiglia.

2. A questo punto Gesù chiede un parere: Che ve ne pare? Chi fa la volontà di Dio: uno che sfacciatamente dice No! Non ho voglia! o uno che dice Signorsì! come un soldatino o una giovane recluta e poi non fa niente?

Rispondendo alla domanda Chi ha fatto la volontà del Padre? (la cui risposta è ovvia) si dà un giudizio su sé stessi. I figli che alla fine non vanno nella vigna a lavorare pare siano gli uomini religiosi: scribi e farisei al tempo di Gesù, membri della comunità incoerenti e pigri al tempo del vangelo di Matteo, e anche cristiani di oggi.

3. Nell’atteggiamento degli Israeliti “troppo bravi a dire di sì” vi è una sorta di abitudine mentale tipica anche ai nostri giorni. Tende ad attribuire ai “tempi”, alla “struttura globale” , alla “cultura dominante” o alla “società” i malesseri della nostra convivenza, quando invece questi dipendono dalla responsabilità personale di ciascuno. Si colpevolizzano sempre le istituzioni e si individuano responsabilità in astratto, senza considerare che determinati problemi molto spesso dipendono soprattutto da noi, cioè da “me”, da “te” e da “loro”.

Tutto dipende dalla conversione del cuore che interpella il singolo uomo in rapporto con Dio, e dalla consapevolezza che agire al di fuori della volontà del Signore è dannoso per l’uomo stesso.

Possiamo affermare che il primo frutto del lavoro dell’operaio evangelico è l’amore vicendevole, l’unione continua e profonda con gli altri.

Il sentirsi meglio nell’unico corpo, dove ciascuno compie la propria parte, con un’espressione moderna potremmo chiamarlo “fare un vero gioco di squadra”.