L'intervista del Vescovo al Corriere delle Alpi - 24 dicembre 2019

«Ci salviamo nelle emergenze: questa capacità si trasformi in progetto»

Il peso portato dagli Amministratori locali, le crisi aziendali, lo spopolamento

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Lei ha voluto incontrare, in occasione del Natale, i pubblici amministratori, i sindaci e i parlamentari in particolare. Con loro promuove anche momenti di riflessione in vari ambiti pastorali. Come li trova i nostri amministratori e cosa si attende da loro?

L’incontro con i sindaci e i parlamentari era desiderato da tempo. Già lo scorso anno, subito dopo l’elezione dei nostri attuali parlamentari – ne abbiamo 6 in provincia, tra questi ora un ministro – ci siamo incontrati con loro per un dialogo in cui i vari responsabili di ambiti pastorali della diocesi hanno loro esposto alcune problematiche che si riflettono nel vissuto delle nostre parrocchie. Dunque per me è insito al mio ministero questo confronto. Quando ho iniziato il mio ministero di vescovo, incontrando i sindaci e le altre autorità, ho paragonato l’esposizione pubblica del mandato di vescovo e la responsabilità che ne comporta a quella dei sindaci e delle altre figure di rappresentanza della comunità civile. A questo livello c’è comunanza di assunzione di responsabilità, di dedizione alla comunità, di impegno personale, di rispetto delle istituzioni, di doveri verso la popolazione che si serve.

I nostri amministratori li trovo tra “Scilla e Cariddi”: questa strettoia, con una duplice polarità che attrae e mette in difficoltà lacerando interiormente chi la vive, oggi anche in loro è molto evidente. Nella lettera consegnata ai sindaci abbiamo evidenziato una di queste polarizzazioni, ma sono molte e a più livello: oggi per loro è molto forte essere costretti ad applicare una normativa complessa ed estenuante con la burocratizzazione che comporta (sono dediti a fare bilanci sempre…) e, dall’altra parte, attivare un ascolto attivo, empatico, sollecito ed efficace delle persone, dei gruppi, della comunità con ciò che ne comporta nel farsene carico.

Vedo amministratori imbarazzati, tirati da una o dall’altra polarizzazione e, in questo, esposti… Spesso ci si lascia attrarre da ciò che non tiene dinamicamente insieme finalità di servizio e coerenza personale.


In quale misura le comunità parrocchiali possono farsi carico delle problematiche civili?

Sogno comunità parrocchiali che assumano la profezia evangelica. Il Vangelo è “sale della terra” e “luce del mondo”. Negli orientamenti pastorali di quest’anno abbiamo scritto: «Crediamo che il Vangelo sia fonte e potenziale di luce per ogni vicenda e condizione di vita». Chiaramente questo non va inteso né nella declinazione del fondamentalismo né in quella del populismo, tantomeno banalmente e – peggio ancora – strumentalmente per ottenerne privilegi a scapito del bene comune e della giustizia sociale. Abbiamo condiviso con i Sindaci che anche per loro c’è un rapporto con le persone e le comunità che si impatta con la loro dimensione di spiritualità e di religiosità. Per questo c’è un nuovo rapporto da creare che non sia secondo le “vecchie” dicotomie: materiale e spirituale, privato e pubblico, religioso e laicale… Dinnanzi a chi è chiamato ad un servizio ci sono persone concrete con la loro storia e ci sono comunità articolate e complesse. Ci si rapporta con loro a custodia della loro realtà di vita, della loro coscienza, della loro libertà, delle loro scelte. Questo è l’orizzonte in cui collocarsi. Questo orizzonte ricompone anche chi si avvicina e si affianca in nome di qualcosa o di qualcuno o di una dimensione particolare…


Lo spopolamento come interpella la parrocchia, più ancora le convergenze pastorali, le foranie? Da dove partire per frenarlo, per trattenere soprattutto le coppie giovani?

Dal riconsegnare vitalità alle comunità. Se una realtà è “bella” perché si vive bene in essa, seppure piccola, si accendono altre ragioni – quelle del cuore – per sceglierla, per appassionarsi ad essa, per farsene carico… Certamente questo è possibile se tutti gli attori vi concorrono. Ci sono anche condizioni concrete che occorre garantire e offrire. Non vedo disponibilità, però, a livello anche istituzionale, a pensarla così e a cercare soluzioni in questo senso. Attualmente le scelte e le dinamiche di chi ci governa sono di non considerazione delle persone e di ciò che è loro costitutivo – cioè essere comunità – ma guardare e misurare tutto secondo altri criteri che alla fine producono nuove forme di ingiustizia sociale.


Si diceva che la messa in sicurezza della desertificazione delle terre alte dipende dal lavoro. Le ultime statistiche della Provincia certificano che, invece, sono i servizi a trattenere le famiglie? L’asilo di Taibon, ad esempio. Sedico aumenta solo perché i servizi sono ad un passo.

Proprio per questo nell’ambito del welfare di identità territoriale a cui abbiamo dato piena adesione e partecipazione, abbiamo lanciato il progetto per gli asili-nido. Ne siamo convinti come Diocesi. Certamente non basta questo, ma misurarsi con i bisogni reali, valutati, visti in prospettiva e accompagnati se attivano un processo… tutto questo occorre portare avanti con passione e coraggio. Il lavoro è fattore di insostituibile incidenza, non può essere isolato. Non esiste solo un problema del lavoro, ma in questo c’è il problema del tessuto relazionale e comunitario da sostenere, c’è quello del rapporto con le nuove generazioni da reimpostare (troppo lontano da esse si è costruito futuro che in realtà è diventato “frustrazione del loro futuro”); c’è poi la questione “vita familiare” da ricomprendere addirittura nei suoi modelli; c’è anche la dimensione spirituale emarginata purtroppo, anche con il nostro concorso di Chiesa, quando non ci siamo lasciati rinnovare. Ci sono molti indicatori nell’ambito delle neuroscienze che aprono scenari nuovi, inattesi e certamente inediti a riguardo: le persone sono anche un “capolavoro di spiritualità”, tutte…: in questa prospettiva ci troviamo tutti con dei “pregiudizi culturali”.


I giovani, invece, per restare hanno bisogno di qualcosa d’altro. Del lavoro senz’altro. Lei quali proposte si sente di avanzare?

Ho accennato già sopra a qualcosa. Sono rimasto colpitissimo dall’esperienza dell’estate scorsa fatta con una quarantina di giovani sopra i 18 anni, in pellegrinaggio a piedi sulla via di San Francesco, da Sansepolcro ad Assisi. Ho riscontrato, nel cammino condiviso, una grande domanda purtroppo da noi adulti ignorata. Questi giovani hanno fatto intravedere un’interiorità che noi – delle generazioni precedenti – abbiamo riempito altrimenti o concretamente fatto ritenere non-redditizia, non adeguata alle esigenze di successo a cui li abbiamo costretti. Lungo il pellegrinaggio c’erano domande semplici di vita da considerare insieme, dei momenti di silenzio da non sfuggire, delle relazioni in cui raccontare qualcosa del proprio vissuto, accostando un po’ di vangelo per entrarvi in esso. Che cosa ci hanno confidato questi giovani? Praticamente ci hanno confidato: «Tutte queste cose che in questi giorni ci hanno dato respiro, luce, speranza… ci sono impedite nella vita che ci viene imposta, nella stressante corsa tra studio e illusione della professione futura, con le logiche per emergere ovunque a cui la società ci costringe». È impensabile una cosa del genere: noi togliamo vita alla vita dei giovani! È come svuotarli e farli dipendere da ciò che non è vita… Mi ferisce molto pensare che stia succedendo questo…


Subito dopo la tempesta Vaia lei ha sottolineato il grande valore della coesione sociale, e non solo, dimostrato dalle comunità colpite. È un valore che resiste?

Ora mi preoccupa che quello che abbiamo lì sperimentato diventi “progettuale” e ci permetta non solo di essere ancora bravi nelle emergenze ma di creare progettualità, rappresentazioni nuove di vita comunitaria, di solidarietà, di “destino comune”, di politica, di vita associativa, di lavoro condiviso, di libere coscienze che dialogano. Ora ancora manca una riflessione che traduca in un progetto di comunità quanto nella circostanza di Vaia abbiamo con efficacia “improvvisato” per salvarci…


Le situazioni di crisi, dalla Wanbao alla Safilo, a quali riflessioni dovrebbero portare le comunità bellunesi, da una parte, e gli imprenditori e gli amministratori dall’altra?

Occorre smetterla di pensare al “mio” lavoro, alla “mia” azienda, alla “mia” categoria, al “mio” profitto… Questo per tutti! Anche per le nostre comunità parrocchiali…


Arriveranno grandi eventi sportivi in provincia, con grandi investimenti. I bellunesi come possono non perdere l’anima? E mantenere, ad esempio, la consapevolezza di restare custodi di questo creato?

È un capitolo che dà trepidazione. Se non si comincia da ora non tanto a spartirsi fondi, ad avere successo perché dimostreremo di essere bravi, a ottenerne semplicemente qualcosa, ma a ripensare rapporti nuovi a tutti i livelli, prendendo a cuore le tante situazioni di non-cultura, di arretramento, di minor qualità di vita, di povertà, di flessione dell’associazionismo, di sfiducia” nella società civile… allora può succedere che risulteranno apparentemente vincitori coloro che faranno la prima partita e si vedranno primeggiare in tutti i social e gli schermi, ma  con la drammatica conseguenza di troppi giocatori esclusi… Mi sembra che ora nessuno si preoccupi di informare e formare a questi nuovi eventi sportivi le comunità, le persone nelle loro situazioni di vita. Sì, occorre “formare” per coinvolgerci comunitariamente. Anch’io mi sto interrogando su che cosa siamo sollecitati pastoralmente. Dovremmo aprire da subito un laboratorio pastorale… il tempo che viviamo e il territorio che abitiamo parla alla comunità ecclesiale, la interpella…

Il suo augurio di Natale?

Il Natale ci coinvolge tutti. La celebrazione della nascita di Gesù, a quel tempo… in quell’angolo del mondo… è perché tutti siamo nati e siamo sollecitati a celebrare il “nostro” Natale che è “venire a questo mondo”, è “essere stati dati alla luce”… Che Gesù sia confessato dai cristiani come il “salvatore di tutti” significa proprio questo riscatto della nascita e della vita di tutti. Diamo vita alla vita!

Intervista di Francesco Dal Mas
Corriere delle Alpi, 24 dicembre 2019, pag. 19