Curare chi non può guarire

Il caso della piccola Indi e la necessità di garantire a ogni malato ogni possibile forma di cura, con competenza, solidarietà e amore

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Indi Gregory, piccola di otto mesi, è stata lasciata morire interrompendo il supporto vitale che, da quando era nata, la teneva in vita. Anche a lei è successo quanto era accaduto al piccolo Charlie Gard e ad Alfie Evans, bambini per i quali i medici avevano diagnosticato l’inguaribilità della malattia.

Nel caso di Indi sono stati i medici del Queen Medical Center di Nottingham a chiedere lo stop del supporto vitale, sostenuti dalla sentenza di un giudice dell’Alta Corte britannica. Certamente Indi era affetta da una patologia che, allo stato attuale delle conoscenze, non aveva possibilità di guarigione. Si è affermato così il concetto che “inguaribile” sia sinonimo di “incurabile”. Ciò è accaduto proprio nel paese di Cicely Saunders, prima infermiera e poi medico che, nella seconda metà del ‘900, diede vita al movimento degli hospice e alla strategia delle cure palliative. Lei era solita dire ai suoi allievi e collaboratori: “dobbiamo imparare a curare quando non si può più guarire”; una cura fatta di presa in carico, di controllo del dolore e dei sintomi con il supporto dell’affetto e la dedizione dei propri familiari, degli amici e dei curanti. Tutte le storie delle persone affette da malattie inguaribili sono sostenute dal conforto della speranza che spesso vediamo negli occhi dei malati e dei loro familiari.

Nel caso di Indi è prevalsa l’idea che la sua vita fosse indegna perché troppo carica di peso sociale e di costi economici e così è stata abbandonata al suo destino ineluttabile, contro il parere dei genitori che hanno lottato fino alla fine per tenersi stretta la loro bambina, sfidando ogni sentenza. Tutto ciò nonostante i medici dell’ospedale Bambin Gesù di Roma avessero manifestato la disponibilità a continuare le cure e, per facilitare le procedure burocratiche, il governo italiano avesse concesso alla piccola Indi la cittadinanza del nostro paese.

Troppo spesso dimentichiamo che oggi, anche di fronte a malattie gravissime e cariche di potenziale dolore, è possibile effettuare un’efficacie presa in carico, aperta ad uno sviluppo tecnologico che quotidianamente offre nuove misure per sostenere chi soffre di condizioni invalidanti, consentendo loro di guardare alla vita con speranza.

Certamente l’esperienza del dolore e della sofferenza interroga profondamente la nostra umanità e il senso della nostra esistenza; soprattutto ci pone la questione della pari dignità ed uguaglianza fra gli uomini che non può essere discriminata sulla base dello stato di salute e dell’integrità psicofisica.

Il senso della professione medica, di fronte alle malattie inguaribili, va proprio nella direzione del miglioramento della qualità di vita, del controllo dei sintomi e del dolore, dell’accompagnamento umano e spirituale e non certo nell’interruzione di tutto questo. Ad ogni malato e alla sua famiglia deve essere garantita ogni possibile forma di cura e di sostegno in modo proporzionato e adeguato. Prevenire l’accanimento terapeutico non vuol dire “staccare semplicemente la spina”, ma sospendere ciò che non dà più speranza di vita, conservando tutto ciò che consente ancora di umanizzare la malattia ed il morire. Le delicate fasi della vita come “l’andare verso il morire” o i momenti di grave fragilità non possono essere trattati con le logiche del mercato e della cosiddetta sostenibilità economica. La vita umana, soprattutto nelle sue fasi di vulnerabilità, non può essere iscritta nel capitolo dei costi. Vivere dentro la malattia vuol dire anche poter godere degli sguardi di chi ti vuol bene e non ti abbandona alla solitudine o alla freddezza della tecnologia; ognuno di noi ha il diritto di essere accompagnato nello scorrere dei giorni dentro il suo soffrire con competenza, solidarietà e amore. Soprattutto non possiamo spegnere la speranza che vive in noi con la morte certa a cui le varie forme di eutanasia e il suicidio assistito ci condannano senza possibilità di ritorno. La vita è anche Mistero, non riducibile alla nostra dimensione biologica, che dobbiamo perseguire sempre come fine e mai come mezzo.

Gian Antonio Dei Tos
medico–bioeticista