A cura di don Claudio Centa

Da Agordo a Servo: parrocchie da affittare

Il titolare dà in affitto la pieve di Servo con contratto di locazione

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Contratto di locazione, con il quale Giovanni Battista Romagno dà in affitto la pieve di Servo al sacerdote Battista De Nassia.
Feltre, 5 settembre 1554
ADF, Canc. Vesc., Atti vari, 28, 959r-960r.

Per continuità, in questo nuovo appuntamento ci toccherebbe avanzare nell’esplorazione della serie Visite pastorali, in cui abbiamo cominciato a inoltrarci la settimana scorsa, nella nostra visita all’Archivio Diocesano di Belluno. E invece voglio ricollegarmi all’interrogativo con cui ho chiuso la puntata precedente. Abbiamo visto il vescovo Giulio Contarini partire il 5 luglio 1549 da Belluno per recarsi a svolgere la visita pastorale nelle parrocchie dell’Agordino e tra i suoi accompagnatori vi era l’arcidiacono di Agordo. Questa la curiosità che avevo desiderato trasmettere ai lettori:

«Giovanni Salce (titolare della pieve di Agordo) parte da Belluno col vescovo per andare ad Agordo, mentre ad Agordo si trova un sacerdote, Giuliano Vergerio, che ne fa le veci. Ma se il titolare della pieve era Salce, perché non viveva ad Agordo?».

Parroci non residenti

È bene che vi offra da leggere le seguenti bellissime righe scritte da Hubert Jedin, il più grande storico della Chiesa nel Novecento, nel suo capolavoro dedicato al concilio di Trento:

«Per l’uomo del XX secolo nessun avvenimento della storia del concilio di Trento è difficile da capire come la lotta per l’obbligo di residenza dei vescovi e dei parroci che venne iniziata durante il primo periodo, ma definitivamente risolta soltanto durante il terzo. A noi uomini del giorno d’oggi sembra la cosa più naturale del mondo che il vescovo governi personalmente la sua diocesi e il parroco la sua parrocchia e assolva il suo incarico apostolico mediante la sua personale prestazione. Nella Chiesa del tardo medioevo questa concezione non era affatto naturale» (H. Jedin, Storia del concilio di Trento, II, 367).

Dal tardo Medioevo si era andato diffondendo l’uso che molti vescovi, e così pure molti parroci, avevano la titolarità del beneficio con annessa cura d’anime, ne godevano i diritti patrimoniali, ma facevano esercitare da altri i doveri legati all’ufficio pastorale. Si creò così nella mentalità, e trovò modo di essere avallata dalla prassi canonica, una dissociazione tra “beneficium e officium”. Ci si abituò insomma a considerare il beneficio, che ha la sua ragion d’essere di mezzo per assicurare il sostentamento di chi svolge l’ufficio pastorale, come un bene patrimoniale e a considerare gli annessi obblighi pastorali (officium) separabili e adempibili da un sostituto.

Restando a questo caso specifico, Giovanni Salce divenne arcidiacono di Agordo nel 1546, dopo che in primavera era morto il suo congiunto Agostino Salce. Nel 1553 Giovanni divenne anche canonico della cattedrale di Belluno, come lo fu il suo congiunto Agostino, che era stato contemporaneamente canonico di Belluno e arcidiacono di Agordo. Giovanni Salce fu arcidiacono di Agordo per quattordici anni (dal 1546 al 1560), ma non visse mai ad Agordo, egli abitò stabilmente a Belluno. Egli godeva le rendite della sua pieve, ma faceva svolgere da altri sacerdoti il lavoro pastorale: il veneziano Paolo Zane, quindi Giuliano Vergerio di Cesana (che già abbiamo visto) e dopo di lui il cremonese Daniele de Bortoli. Giovanni morì nel dicembre del 1560, dopo che, appena un mese prima, aveva rinunciato al canonicato in favore del fratello Giacomo, che gli subentrò anche nell’arcidiaconato. È da notare anche questo: Giovanni fu titolare di questi due incarichi avendo solo gli ordini minori, senza sentire mai il desiderio di essere ordinato prete; ricevette l’ordinazione sacerdotale solo pochi giorni prima della morte e non ebbe modo di celebrare nemmeno la prima Messa (F. Tamis, Storia dell’Agordino, II, Vita religiosa, Belluno 1981, pp. 104-105).

Questa situazione era assai diffusa: canonici, curiali, anche vescovi e cardinali, che erano titolari di parrocchie, nelle quali certamente non risiedevano. Porto qualche esempio limitandomi alle nostre due diocesi dell’epoca. Antonio Cimador a metà Cinquecento oltre che canonico era titolare anche della curazia di Orzes; negli anni Trenta, il canonico Vendrando Egregis era contemporaneamente pievano di Castion, mentre una trentina di anni più tardi il canonico Alessandro Maresio era titolare anche della pieve di Limana. Sempre nel Cinquecento, a Feltre troviamo il canonico arcidiacono Girolamo da Mello che per più di trent’anni fu titolare della curazia di Villabruna, alla sua morte un altro parroco non residente: il canonico Pellegrino Mastorcio; per poco meno di dieci anni il canonico Fabrizio Bovio fu titolare di quella di Pedavena; per oltre vent’anni il canonico Giovanni Donato dal Pozzo tenne la parrocchia di Primolano, abitando stabilmente a Feltre (per una copiosa esposizione di casi rinvio a C. Centa, Una dinastia episcopale…, Roma 2004, II, 842-856 e 864-875)

Parrocchie in affitto

I titolari di parrocchie non residenti, assumevano con regolare contratto un prete che svolgesse in nome loro la cura d’anime. Si trattava di contratti stilati con atto notarile, come quello che ora vediamo. Il titolare aveva la parte di locatore del beneficio e il sostituto la parte di locatario. Il titolare (locatore) lasciava al sostituto (locatario) il godimento delle rendite del beneficio, il locatario si impegnava: a versare un compenso annuo (canone di affitto) al titolare, a sostenere gli oneri materiali riguardanti il beneficio e a svolgere le funzioni pastorali.

Entriamo nello specifico vedendo il contenuto del presente contratto. E qui il meccanismo si fa ancora più interessante, e complicato, perché si aggiunge un’altra variante. Giovanni Battista Romagno, vicario generale di Feltre, oltre che essere canonico della cattedrale era anche titolare della pieve di Servo, parrocchia di montagna nella quel non risiedeva e che faceva servire da sostituti. Nel 1535 rinunciò alla pieve nelle mani del papa in favore del nipote Antonio Crema, ponendo la condizione che fosse riservata a lui rinunciante la riscossione delle rendite del beneficio: grazia che il papa gli accordò. Il vantaggio era doppio: egli continuava a godere dei proventi economici ed era garantita la permanenza in famiglia del beneficio, per un congiunto più giovane. Il vero dominus della pieve continuò in effetti ad essere Romagno, sino alla morte, avvenuta vent’anni dopo la rinuncia per il nipote. Nell’autunno del 1554, Romagno diede in affitto la pieve al sacerdote Battista de Nassia, nativo di Feltre. Il contratto aveva la durata di tre anni: dal 2 febbraio 1555 al 1° febbraio 1558. De Nassia avrebbe trattenuto per sé le rendite della pieve, in cambio avrebbe versato a Romagno un canone annuo di 32 scudi d’oro, da corrispondere ogni anno in due scadenze, e, sempre annualmente, i seguenti beni in natura: due agnelli, due capponi e 10 libbre di formaggio. Era onere del locatario, de Nassia, versare le decime che la Santa Sede o la Repubblica Veneta avessero eventualmente imposto sui benefici e sostenere le spese per liti giudiziarie in cui fosse stato coinvolto il beneficio. De Nassia, ingaggiato come sostituto, si impegnava a vivere in parrocchia “notte e giorno con sollecitudine e vigilanza” a celebrare le Messe, a predicare al popolo, ad amministrare i sacramenti e a svolgere i vari uffici divini.

È possibile dire con sicurezza che Romagno, sebbene formalmente non titolare della pieve (lo era da vent’anni il nipote) ma delle rendite, continuò a godere di esse fino alla morte, in quanto uscì di vita il 6 novembre 1555. Il nuovo pievano non volle più come sostituto il de Nassia, il quale dovette cercare un nuovo ingaggio. Questo sacerdote venne assunto nell’autunno del 1558 dal titolare della pieve di Lamon, il sacerdote Prosdocimo Cogo, che viveva a Padova: con contratto che entrava in vigore dal 1° gennaio 1559 e valevole per tre anni.

L’uscita da questo sistema

Sarebbe oltremodo interessante soffermarsi sui risvolti sociali e economi di questo sistema (circa questi ultimi, se si pensa alla parrocchia come una piccola azienda, allora era anche questo, era particolarmente geniale), ma andremmo troppo per le lunghe e questa non è la sede. Voglio invece segnalare come non mancasse nella Chiesa chi sentiva che questo sistema doveva aver fine. Venne espresso in modo chiaro da una commissione istituita nel 1536 da papa Paolo III e presieduta dal cardinale Gaspare Contarini (vescovo di Belluno). Così sostenevano con chiarezza questi prelati riformatori:

«Un altro gravissimo abuso è nell’assegnazione di benefici ecclesiastici, soprattutto di quelli a cui è connessa la cura d’anime e primi fra questi gli episcopati, riguardo ai quali è invalsa l’abitudine di favorire gli individui, ai quali vengono assegnati i benefici, e non il gregge di Cristo e la Chiesa» e si continuava sostenendo che era necessario assegnare diocesi e parrocchie a ecclesiastici che risiedessero (traduzione in M. Marcocchi, La Riforma Cattolica. Documenti e testimonianze, I, Brescia 1967, 482).

Quanto auspicato divenne legge della Chiesa quasi trent’anni più tardi. Una delle più grandi conquiste del concilio di Trento fu delineare un nuovo profilo di pastore, stabilendo con chiarezza che tutti coloro che erano titolari di un incarico con cura d’anime (vescovi e parroci) avevano l’obbligo grave di risiedere con i fedeli loro affidati:

«Con precetto divino è stato comandato a tutti quelli incaricati della cura delle anime di conoscere le proprie pecore, di offrire per esse il sacrificio e di pascerle con la predicazione della parola divina, l’amministrazione dei sacramenti e l’esempio di ogni opera buona, di avere una cura paterna dei poveri e per gli altri bisognosi e di attendere a tutti gli altri doveri pastorali. Tutti questi atti non possono essere compiuti da quelli che non vigilano e non assistono il proprio gregge, ma lo abbandonano come mercenari, pertanto il sacrosanto sinodo li ammonisce e li esorta, perché memori dei divini precetti e facendosi modelli del gregge lo pascano e lo reggano nella saggezza e nella verità» (XXXIII sessione, Decreto di Riforma, 15 luglio 1563; traduzione italiana in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo e alttri, Bologna 1991, 744).

La prossima settimana riprenderemo il filo della serie Visite pastorali, vedendo la mole dei verbali di visita assai particolareggiati di uno dei più esimi vescovi di Belluno in età moderna.