A cura di don Renato De Vido (31ª domenica del tempo ordinario - anno A)

Diffida dell’uomo rigido

Per amore di verità, è proprio vero che i farisei si aggirano di preferenza tra i banchi di chiesa?

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Gesù, maestro di misericordia e di tolleranza, amico dei peccatori, indulgente con la debolezza umana, diventa un altro quando si scontra con la categoria degli ipocriti. C’è qualcosa in quel genere di persone che gli fa sfoderare parole pesanti e accusatorie. Da “maestro di accondiscendenza” si trasforma in “maestro di polemica”, fino a rasentare l’ingiustizia.

1. Siccome compito del vangelo è farci scoprire cosa piace e cosa non piace al Signore, ci tocca esplorare un po’ il terreno del nostro cuore.

C’è anzitutto un elenco di malattie spirituali che ruotano attorno al cosiddetto fariseismo. L’aver perso le ragioni di certi gesti religiosi; la preferenza per l’apparire anziché per l’essere; il servirsi della religione anziché servirla con cuore puro; lo sfruttare il proprio posto o ruolo sociale per dominare sugli altri.

Però il male più grave e più pericoloso resta sempre uno solo: il confondere la forma con sostanza, insomma l’incoerenza, che è lo sciupare il bellissimo deposito della fede con una condotta non adeguata.

2. Gesù, dunque, non muove accuse gratuite, ma si dimostra preoccupato di salvare l’uomo, scuotendolo. Tra le righe, quindi, compaiono dei rimedi. Rimedi che ci aiutano non a non sbagliare, ma a sbagliare di meno. È consigliabile vedere se ciò che esigiamo dagli altri noi siamo in grado di farlo, o per lo meno ci sforziamo di raggiungerlo.

Buon esercizio di verifica è anche un altro: se riusciamo a mettere d’accordo la pratica religiosa con ciò che essa produce nella vita quotidiana. Chi ha contatti frequenti con la parola di Dio, con la Chiesa, con la preghiera, sente di avere più mezzi degli altri, e che quindi coltiva un ideale più alto.

3. I “pii israeliti” amavano ostentare la loro devozione, amavano farsi vedere mentre pregavano e mentre facevano l’elemosina. Gesù richiama tutti alla sobrietà, alla genuinità.

Serpeggia sempre un’aria di critica e di sufficienza verso i tanti che non hanno avuto la gioia e la fortuna di lavorare nella vigna del Signore. Però la Chiesa non si identifica né con i preti né con i frequentatori di gruppi ecclesiali di varia denominazione. La Chiesa resta sempre quella famiglia di figli di Dio che ha bisogno di conversione, che sente perfino la gioia di sapersi perdonata.

Non è vero, per amore di verità, che i farisei si aggirino di preferenza tra i banchi di chiesa. Semmai, oggi siamo in una situazione rovesciata: che ci si vanti di non appartenere, attivamente, alla comunità cristiana. È il “fai-da-te” della fede. Con la scusa che “con Dio me la vedo io”. Oppure che “chi va in chiesa è peggiore degli altri”.

Perché addossare ai cristiani anche le colpe che non hanno? O perché farsi scudo degli errori morali altrui, anziché revisionare se stessi? Anche fra la gente comune, i rischi di stravolgere fede ed opere è enorme.

Anzi, più sono inflessibili e rigidi con gli altri, più si sentono fedeli e giusti: «Diffida dell’uomo rigido, è un traditore» (W. Shakespeare).