A cura di don Sandro De Gasperi (32ª domenica del tempo ordinario - anno C)

Il Dio che ci sta davanti

L’autunno è tempo favorevole per riflettere sulla finitezza della nostra vita

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I colori dei nostri boschi, l’aria tersa e pulita che ci lascia godere panorami mozzafiato, il calore del sole hanno accompagnato, nei giorni appena trascorsi, molti di noi nella visita dei nostri cari che riposano nei cimiteri. L’autunno, con la sua coloratissima bellezza, il freddo che inizia a farsi sentire, le piogge che rendono le giornate cupe, è il tempo favorevole per riflettere sulla finitezza della nostra vita, sulla verità che anche noi, un giorno, dovremo lasciare questa terra.

Le letture di questa domenica imprimono una svolta all’anno liturgico, che si avvia, ormai, verso la sua conclusione: a Gesù, i sadducei – ricchi aristocratici di Gerusalemme, uomini pragmatici – raccontano una storia inverosimile, quasi comica nella sua tragicità, per metterlo alla prova, per ridicolizzare la risurrezione dei morti. Sembra che questi uomini abbiano rinchiuso la vita – con i suoi risvolti imprevisti e, purtroppo, a volte davvero drammatici – in una casistica chiara e ben definita: persino la Parola di Dio, che ha creato il mondo, viene usata come arma cinica e spietata, incapace di incontrare la vita dell’uomo nella sua complessità e di rischiararla. Il sentire comune del tempo di Gesù immaginava la vita eterna come la continuazione della vita terrena, un po’ migliorata: la novità della Risurrezione, la novità della Pasqua, è l’annuncio di una vita radicalmente rinnovata, in cui non viene cancellata l’identità profonda della persona – che non può mai essere separata dal suo corpo –, ma che conosce sussulti, desideri, movimenti.

Una vita che ha finalmente scoperto che vivere per qualcuno dona la forza e il coraggio di affrontare anche le sfide più dure: la testimonianza dei sette fratelli Maccabei è l’esempio di una vita che si realizza nella fedeltà all’amore di Dio, fino alla morte. Anche oggi il messaggio della Risurrezione fa fatica ad essere accolto in tutta la sua potenza, in tutta la sua bellezza: specialmente quando ci confrontiamo con la caducità del nostro corpo, con il venir meno delle forze che culmina nella dissoluzione della nostra fisicità, facciamo fatica a credere che, un giorno, quel corpo – che in realtà siamo noi – risorgerà.

Gesù sposta il baricentro sulla discussione: la questione in gioco nella risurrezione è il Dio che ci sta davanti. Il Dio di Gesù è un Dio che ama talmente le storie degli uomini, da ricordarsi i loro nomi, da definirsi attraverso di loro, da farsi chiamare il «Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe».

L’amore di Dio per l’uomo è talmente forte, talmente intenso, talmente totalizzante che coinvolge anche la parte più fragile (o che noi percepiamo come tale), il nostro corpo: la nostra vita, di cui la morte costituisce il traguardo certo, non viene salvata a pezzi, ma integralmente, perché tutto quello che possiamo volere, tutto quello che possiamo pensare e sentire, tutto quello che possiamo amare passa attraverso il nostro corpo.

Forse per quella donna, sette volte sposa, sette volte vedova, mai diventata madre, la vita eterna è la capacità a lungo attesa e desiderata di dare la vita, anche con il proprio corpo. Dare la vita, anche con il nostro corpo, compiere gesti di vita – con la corporeità che abbiamo, sia essa nella forza della giovinezza, o nella fatica della vecchiaia, sia nella crescita, sia nella maturità – è l’annuncio, è l’anticipo, è la promessa della risurrezione che oggi ci viene donata, perché possiamo entrare domani nella vita: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».