Il video dell’intervista
Don Andrea Canal è un giovanissimo “quasi-prete” – possiamo dire così? – della diocesi di Belluno-Feltre. “Quasi-prete”, perché l’ordinazione sacerdotale sarà tra pochi giorni, il 4 maggio, più o meno a un anno da quando sei diventato diacono. Don Andrea, c’è emozione?
Sì, appunto perché il percorso di formazione è lungo e ci sono alcuni desideri che si custodiscono nel tempo e, quando si arriva verso la fine e il percorso prende forma concreta nelle scelte di vita, è chiaro che dentro di sé si sente il movimento. È ben custodito, però si sente che c’è qualcosa di grande, che si sta muovendo e che comincia a prendere forma.
Ci sveli quanti anni hai?
26 anni.
Sei originario di Santa Giustina. Sappiamo che la tua famiglia ha avuto un ruolo importante nelle tue scelte, nella tua vita, nel tuo orientamento. È vero?
Sono originario di Santa Giustina, nato e cresciuto a Santa Giustina. In famiglia siamo cinque: ci sono i miei genitori e poi mio fratello e mia sorella. Devo dire che siamo una “bella squadra”. Noi tre fratelli siamo distanziati di cinque anni, sia con mio fratello maggiore, sia con mia sorella; la differenza di età si sente. Però c’è tra noi fratelli una bella coesione, una bella sintonia. La famiglia è stata sicuramente un luogo ricco e importante, che mi ha accompagnato e sostenuto. Lo dico anche in riferimento ai miei fratelli: una presenza, non qualcosa di evanescente. La famiglia è una cosa che si sente.
Quando hai detto ai tuoi familiari che avevi voglia di farti prete?
Forse qualche “segnalino” l’avevo dato da piccolo, perché don Sergio [Dalla Rosa] lo racconta sempre, lui che era il mio parroco, quand’ero piccolo. Io ho cominciato a fare il chierichetto, quando avevo tre anni! Don Sergio mi ha preso un po’ sotto la sua ala e lì avevo cominciato a sognare e immaginare questa cosa. Ero piccolino, ancora all’asilo e lì c’era stato questo slancio per questa cosa. Poi crescendo il pensiero è un po’ sfumato. Negli anni delle superiori, soprattutto negli ultimi, quando l’impegno in parrocchia e l’impegno nell’Azione Cattolica avevano un peso importante nella mia vita, avevo anche cominciato a pensare a come rendere concreto tutto questo impegno, queste attività che facevo. Mi chiedevo come queste potessero anche continuare nella vita da adulto e quindi, in maniera abbastanza naturale, è maturata questa prospettiva, che ha richiesto del tempo di comprensione, per vedere se effettivamente poteva centrare con la mia vita la scelta di diventare prete. Nell’anno di quinta superiore, che è stato un anno un po’ turbolento, [i miei familiari] sono stati raggiunti uno alla volta da questo mio pensiero. Devo dire che sfociava in un ambiente già preparato, comunque; non è arrivato come un fulmine a ciel sereno.
Nessuno in famiglia ti ha detto: «Ma sei matto»?
No. Diciamo che su questo l’ambiente familiare è stato anche una culla di questa vocazione.
E l’ambiente dei tuoi coetanei come l’hanno presa? Io rimango stupito, perché tra i giovani a volte si vede tanto smarrimento, anche una certa tendenza anche all’autodistruzione, a non vedere una prospettiva, a non costruire. E pochissimi si fanno preti. Tu hai avuto il coraggio di fare questa scelta. Tra i tuoi coetanei cosa come ti guardano? Che cosa ti hanno detto?
Parto da quelli più vicini, che un pochettino avevano subodorato: sono quelli che all’inizio mi hanno anche aiutato a mantenere un po’ la riservatezza su questa scelta, quando dovevo dire che università avrei fatto, mentre invece stavo pensando al seminario. C’è stato chi mi ha aiutato a custodire questa “bolla”, qualche complice tra gli amici. Dall’altra, anche in loro rimane un po’ la domanda sul perché di questa scelta, che per quanto negli anni delle superiori potessi aver dato qualche segnale di chiara simpatia per la Chiesa e per l’impegno nella vita della parrocchia, è vero che avvertono la densità della scelta.
Negli anni, nel percorso dell’Azione Cattolica, quando si comincia a prendere in mano la vita, subito dopo le superiori arriva il momento in cui si prova a guardare il futuro con in una certa chiave. Quindi la mia scelta e quella di chi ha scelto di sposarsi e di fare famiglia rientrano tutte in quel terreno fertile che la Chiesa ci offre, per poter «dare frutto», ognuno com’è capace, nel modo in cui si sente si sente di portare frutto lui. Quindi quanto poteva sembrare strano allora, visto che io ho cominciato [il percorso in seminario] subito dopo la maturità, quand’ero “piccolino” e avevo 18-19 anni e lì sembrava una scelta grandissima, ora che ne ho 26 e tutti siamo cresciuti di otto anni le scelte di vita cominciano a diventare importanti e impegnative per tutti. E quindi diventa una cosa più condivisa il fatto di prendere impegni nelle scelte per la vita e anche nella vita di fede, non solo nella vita lavorativa o di studio.
Hai fatto riferimento a quanti tra i tuoi coetanei fanno la scelta di mettere su famiglia, di sposarsi. Per la Chiesa anche questa è vocazione. È vocazione la tua di farti prete, ma c’è anche una vocazione al matrimonio. E qual è il senso di questa chiamata? Che cosa ti senti chiamato a fare come prete in questa comunità?
Penso a quello che mi ha scaldato fin dall’inizio, cioè il fatto di poter restituire quello che ho ricevuto. Nel senso che nell’esperienza in parrocchia, oltre ad avere dato tempo, ho anche ricevuto molto. La mia formazione è passata attraverso la parrocchia e quindi la prima cosa che mi ha fatto riflettere è: in qualche modo posso restituire quello che ho ricevuto? Quindi ho detto: “mi metto al servizio, provo ad aiutare a fare negli impegni per il catechismo, nell’Azione Cattolica, dove posso provare a restituire un po’ di quello che ho ricevuto. Questo poi si è sposato con la mia relazione con il Signore, che in quegli anni stava anche maturando e il desiderio di poter avere questa relazione particolare con lui, come un po’ prevede la vita del prete, in cui c’è un rapporto preferenziale nei Suoi confronti. Tutto questo mi ha aiutato a vedere che quella poteva essere la modalità con cui restituire. Sapendo che la vita in parrocchia è assolutamente variopinta, negli anni di seminario questa prospettiva ha preso forma concreta.
Nella vita della parrocchia si incontra tutta l’umanità, non c’è un carisma particolare per il prete diocesano: il prete vive la vita che vivono gli altri e cerca di entrare di solito in maniera delicata per portare quell’incontro con il Signore, che anche gli altri vivono e a cui lui aggiunge la sua sensibilità e la sua relazione, per poterci sostenerci a vicenda. Nella vita delle comunità ci si aiuta a vicenda così, per andare incontro al Signore che chiama tutti.
Tu adesso stai già operando in parrocchia perché, come diacono, sei stato mandato ad Agordo. Quindi un conto è vedere la parrocchia da educatore, magari dell’azione Cattolica, e un conto vederla già dalla prospettiva del prete. Come ti stai trovando “in Agort”, in questo ruolo?
Ad Agordo mi sto trovando bene. La Conca è una bella realtà, unita nelle parrocchie di Agordo, La Valle e Taibon; il parroco è don Cesare [Larese] e io vivo lì, in canonica con lui e con don Virgilio, che il sacerdote che lo aiuta nel servizio. Quindi ci sono state due accoglienze in una canonica perché sono andato a vivere insieme a loro. Gli equilibri della casa si sono un po’ modificati, perché vivere in tre persone insieme, richiede di trovare nuovi equilibri.
Però penso che sia bello far comunità per voi?
Sì, è un aspetto interessante per tutti e tre condividere alcune cose e scegliere alcune cose insieme. E poi c’è la gente, l’incontro con le persone si sta pian pianino affacciando nella vita. È vero che stare in un luogo ti mette nella realtà e la stabilità aiuta sicuramente a prendere confidenza anche con il territorio, con una realtà diversa da quella di origine. Diventa quindi un invito a cambiare prospettiva.
In questi tempi moderni, siamo abituati a dire “pane al pane”. Abbiamo tante parrocchie – sono 158 le parrocchie della diocesi – e quanti preti giovani siete in queste a fronte di queste 158 parrocchie?
Nei primi dieci anni di ordinazione siamo in otto.
Tu sai già che vi aspetterà un lavoro molto grande; avrete un territorio immenso come la provincia di Belluno, che è molto vasta, con poca popolazione sparsa, e sarete pochi preti. Immaginandoti tra trent’anni, come vedi il tuo impegno di sacerdote in questa realtà con questi numeri?
Credo che [fra trent’anni] su tante cose avremmo cambiato punto di vista. Nel senso che adesso sembrano scelte imponenti e granitiche: la modalità in cui cambierà la vita delle parrocchie, non solo dei preti. Oggi non riusciamo forse neanche a sognarla, a immaginarla in maniera concreta. È chiaro che cambierà, perché se non altro cambiano i numeri, cambierà la presenza sul territorio. È sempre stata una forza della Chiesa la presenza capillare, che abbiamo vissuto nella seconda metà del Novecento, una presenza davvero molto ben distribuita nel territorio. Cent’anni dopo sarà invece di tutt’altro colore, di tutt’altra modalità. Per cui sarà richiesto impegno a noi, ai quali verranno affidate le comunità, ma anche le comunità stesse si dovranno interrogare sul loro modo di essere Chiesa. Perché «il mondo cambia, se cambio io» – come dice uno slogan, a cui sono affezionato – però è vero che nella Chiesa sarà un cambiamento che tutti quanti dovremmo prendere in mano e vivere senza troppe paure. La Chiesa in duemila anni ha cambiato diverse volte il suo modo di essere presente: basta immaginare il Nord Africa, dove era tutto cristiano nei primi secoli; poi ci siamo spostati in Europa e lì c’è stata un certo tipo di Chiesa; poi le missioni hanno portato un’altra ventata di Chiesa; adesso nel terzo millennio cambia ancora. L’Europa, non è più quel bacino ricco, che era qualche secolo fa. Il mondo intero sta cambiando e anche sul nostro territorio può sembrare assurdo, ma si sentiranno gli effetti di tutto questo.
Ci sarà bisogno di un po’ di coraggio e immagino che ci sarà anche qualche profeta, che dirà qualche parola su come potrà essere, come potremmo vivere il futuro, perché anche chi ci guida nella Chiesa sa ogni tanto essere profetico; e bisogna anche avere il coraggio di seguire chi ci guida e fidarci di chi lo Spirito Santo e la Chiesa mettono nei posti di guida, perché appunto il futuro anche solo guardando i numeri – che non dicono tutto, ma dicono qualcosa – ci sollecita a immaginare le cose in maniera diversa.
D’altra parte io penso che ci sarà sempre bisogno di ricevere l’annuncio, di ricevere il senso di speranza, che è legato all’annuncio. Quindi ci sarà anche sempre bisogno di preti, che portino questo alla gente, no? E tu che cosa diresti a un giovane, che magari dentro di sé sta un po’ accarezzando questa prospettiva, di fare cioè il percorso che hai fatto tu per diventare prete. Ma magari ha paura di confessarselo, ha paura di dirlo in famiglia… Forse ha bisogno di una spinta. Che cosa ti sentiresti di dire?
Gli direi la cosa che mi ha aiutato nei primi passi: è stato confidarlo con un amico molto caro, con cui poi abbiamo condiviso anche le scelte dopo il seminario; lui ha preso la via dei religiosi, invece io quella diocesana. Comunque avere “un luogo”, dove si possa condividere questa cosa, perché tenerla dentro è bella e vale anche la pena custodirla personalmente; però a un certo punto questa esce, anzi deve uscire. Avere un amico o un’amica, a cui affidare questo pensiero e con il quale ci si possa ritornare nel tempo: perché il pensiero va verificato, si notano i cambiamenti nel tempo. Avere una persona, più grande o anche coetanea – ma è più facile con i coetanei – con cui condividere e a cui affidare questa cosa. L’altro aspetto che a me piace di questa scelta è che è uno di quelli che all’inizio mi ha sostenuto molto è il “per sempre”.
Stavo per farti la domanda sul “per sempre”, che è quello che anche lo sposo e la sposa si dicono. Come si fa ad avere oggi il coraggio di dire “per sempre”?
Sì, allora io forse sono ancora in un momento, in cui gli ideali sono grandi, però è una cosa che mi ha sostenuto in questi anni il fatto che c’è una prospettiva che va oltre il tempo, che ho davanti. Cioè oltre gli anni di formazione, oltre gli anni di studio, si può pensare un po’ più in grande, un “per sempre” che prende tutta la vita. Per me questa cosa è assolutamente intrigante e quindi, quando devo anche prendere in mano uno dei consigli, è sentire un po’ il calore di questo “per sempre” e farsi trasportare, perché è il bello del “per sempre” delle due vocazioni principali che ci sono dentro la vita della Chiesa, quella del prete e quella della coppia, ma come anche la scelta dei [religiosi] consacrati. Il “per sempre” dà forma anche al mio tempo, alla mia vita.
Si sa che si è in compagnia del Signore, non siamo da soli nella chiamata in sé, che può sembrare una cosa strana, che non ha una forma concreta, perché il buon Dio non si chiama con il cellulare. Lui sa rendersi presente ed è uno dei motivi per cui ci si mette in cammino, perché si sente la sua presenza e si è incentivati a camminare con lui, non si è da soli.
Don Andrea, ti chiedo – anche per curiosità personale – visto che tu sei tra i pochi che non hanno studiato da prete qui nel seminario di Belluno. Perché è stata fatta questa scelta di farvi studiare con altri giovani orientati verso questa vocazione a Trento. Come è stata questa esperienza?
Bella, appunto… Partiamo dalle cose semplici: è stata una bella esperienza, anche per il cambiamento che ha portato. Io sono entrato in seminario appunto nell’anno in cui il Vescovo ha scelto di spostare la formazione a Trento. Quindi io ho fatto l’intero percorso, tutti i sette anni a Trento e io ho vissuto fin dall’inizio a Trento quest’esperienza, che è stata un cambio di prospettiva: il seminario in sé come struttura, ma anche la città. Trento ha diverse caratteristiche, ma tra le tante è anche una città universitaria ed effervescente. Insomma sono stati anni, in cui conoscere una realtà diversa: fa bene cambiare aria ogni tanto. Che poi è l’esperienza di tutti i miei coetanei: quando si finiscono le superiori, si va all’università, si cambia aria e con tutte le difficoltà che questo comporta certamente. Però l’andare a Trento si inseriva in un filone di ragionamento legato alla nostra Chiesa, che aveva le sue motivazioni. L’esperienza è stata molto bella, anche come esperienza di comunità: mettere insieme le tre realtà di Trento, che ha ospitato noi di Belluno-Feltre e per alcuni anni quelli di Bolzano-Bressanone, mettere insieme esperienze molto diverse tra di loro, è stato un motivo di scambio e di crescita anche per mettersi in gioco. Perché il background era diverso per le tre realtà e quindi è stato proprio interessante il lavoro, lo sforzo di vivere insieme. E poi è stato bello anche dal punto di vista formativo: io sono più che grato alla realtà del seminario di Trento con i formatori, il rettore, i padri spirituali che ci sono stati, le due figure di psicologo che si sono succedute… Hanno creato un ambiente formativo di qualità e che ci ha aiutato a crescere. In queste settimane ho provato a ripensare anche ai primi giorni seminario, all’accoglienza e a quello che sono oggi dopo, dopo otto anni, sicuramente ha influito positivamente.
Ecco è stato anche un modo lo dicevi prima, appunto per uscire un po’ dai tuoi luoghi, dalla tua Santa Giustina. Ma adesso tu verrai mandato da qualche parte in diocesi, ti legherai a una comunità, ti affezionerai alle persone e poi dovrai cambiare e poi dovrai spostarti. Non ti spaventa un po’ questa prospettiva?
Sì, cioè un po’ lo si mette nel “calderone” delle cose che possono succedere, perché si sa che il prete può cambiare parrocchia; dall’altra, mette in risalto il fatto che la Chiesa non è di mia proprietà. Anche ad Agordo, nella Conca agordina, le parrocchie c’erano prima di me e ci saranno anche quando io me ne andrò via; la fede di quella gente c’è prima di me e ci sarà dopo di me – se non si fanno troppi danni! – credo che questo sia un piccolo vantaggio che abbiamo come preti: il Signore lì ci precede; non è che noi dobbiamo fare grandi cose. Adesso lo dico con la spensieratezza di un giovane di 26 anni, convinto che le cose filino lisce. Poi quando ci sarà appunto concretamente da salutare volti che diventano amici, famiglie che non sono solo conoscenti, ma che aiutano nella vita della parrocchia e anche nella vita personale, magari cambierà qualcosa. Però ci viene affidato un compito, ci viene chiesto di accompagnare e di guidare alcune comunità e si sa che non sarà per sempre. E noi non siamo né Gesù Cristo né il buon Dio; quindi a lui il compito di mettere gli elementi giusti, per far sì che i momenti di passaggio funzionino bene, ma dall’altra anche riconoscere la gratuità di quello che troviamo: la gente sì, la realtà concreta che è molto variopinta e ci viene data. Non la costruiamo noi ed è anche la nostra fortuna: nella vita diocesana non si parte da zero. Non è una missione dove bisogna inventare tutto: troviamo qualcosa che ci viene affidato e che va custodito, fatto crescere, sapendo che magari non si vedranno per forza i frutti dell’operato. Si raccoglierà qualcosa che è stato seminato prima e noi avremo la fortuna di raccogliere i frutti del buon lavoro degli altri. E noi magari avremo il modo di seminare qualcosa, che sarà qualcun altro a raccogliere. Io non la vedo come uno svilimento del nostro servizio, ma ognuno appunto porta quello che è, sapendo che siamo “a tempo determinato”. Anche su questa terra siamo “a tempo determinato”.
Don Andrea, il fatto che tu venga ordinato sacerdote è un fatto importante per la comunità nostra cristiana diocesana. Io penso che sia un fatto importante per tutti il 4 maggio, cioè la tua ordinazione. Spiegaci bene dove, a che ora… Ma io mi sento di dire che potresti anche rivolgere un invito a tutti. Non so se si è mai partecipato all’ordinazione di un prete. È una cerimonia particolare, emozionante, e penso che potrebbe essere un bel momento da seguire anche per chi magari è non troppo dentro la Chiesa.
Sabato 4 maggio, alle 10.30 nella cattedrale di San Martino a Belluno, ci sarà la celebrazione dell’Eucaristia con il rito dell’ordinazione presbiterale. Ricordo quello che è successo un anno fa per l’ordinazione diaconale: eravamo nella chiesa parrocchiale di Santa Giustina, nella mia parrocchia, in un ambiente un po’ più familiare. Comunque sia, quello che ha toccato molti è stato il clima di preghiera che i riti di ordinazione creano: è una ritualità propria che si usa solo per questo momento, che ha linguaggi e segni unici, come l’imposizione delle mani, che un gesto antichissimo e molto evocativo: viene usato spesso nella Chiesa, ma nei momenti di ordinazione in maniera particolare. Poi la consegna degli oggetti che indicano ciò che è il ministero che ci aspetta. E appunto togliendo le emozioni personale, chi era venuto all’ordinazione diaconale “per vedere”, ha vissuto un momento di Chiesa molto bello, un po’ diverso dal solito. Quindi c’è un briciolo di azzardo nel venire a un’ordinazione, perché si sa che non dura il tempo di un rosario, ma è un più lunga; però è una bella occasione di Chiesa, per vedere come tutta la Chiesa diocesana vive questo momento e si impegna per esserci. È una delle cose belle che ho sentito un anno fa è di essere accompagnato in quel passo; quindi è un modo per aiutarmi, perché non è facile; il momento è giunto, ma non si è mai pronti del tutto. Quindi avere chi accompagna e chi fa sentire la sua presenza reale quel giorno sarà un bell’aiuto e un bel modo per sostenermi.
Allora, don Andrea, noi come giornale diocesano saremo il tuo giornale di riferimento anche come prete. Non possiamo che veramente farti gli auguri più calorosi. Perché tu possa fare una bellissima esperienza negli anni a venire e sicuramente se sarà bella per te, sarà bella anche per chi sarà con te, quindi anche con un po’ di commozione ti diciamo veramente: Buona, buona vita! Buonam buona vita da prete! Va bene?
Grazie, grazie mille.
Luigi Guglielmi – Davide Fiocco