Un grande testimone del secolo scorso, il teologo evangelico Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti a causa della sua opposizione al regime di Hitler, in una bellissima preghiera per i giorni di Natale scriveva di uomini che, nella loro tribolazione, vanno a Dio per chiedere aiuto, protezione, salvezza. Non sappiamo che cosa muova i due protagonisti della parabola che la liturgia ci propone in questa domenica: non sappiamo se sia qualche problema, qualche sofferenza, il desiderio di ringraziare a metterli in cammino. Gesù ce li presenta mentre salgono al Tempio, mentre cercano di avvicinarsi al Mistero affascinante ed infinito della vita di Dio, mentre si accostano a Lui per pregare, per portare la loro vita davanti alla Fonte della vita.
L’evangelista Luca, che caratterizza il suo Vangelo con l’attenzione data alla preghiera, ci presenta due atteggiamenti diversi: il fariseo – che ha dalla sua l’osservanza della Legge, i digiuni, la decima pagata con scrupolo e puntualità – prega “tra sé”. Non sa che farsene di Dio, perché basta a sé stesso: Dio non è che la conferma alle sue sicurezze, alla sua pretesa di giustizia, alla bella immagine che vuole dare di sé. Il pubblicano sa perfettamente di non essere a posto, sa di essere indegno di stare alla presenza di Dio, sa che il Signore potrebbe non essere d’accordo con la sua condotta. Eppure, non cessa di portare a Dio la sua vita, di chiedere pietà: il pubblicano sa dare del “tu” a Dio. Proprio qui sta la differenza, banale ma fondamentale, tra una preghiera che celebra chi la pronuncia e una preghiera che rinnova, che guarisce, che avvicina a Dio.
Stiamo celebrando l’Eucaristia, il dono della Parola e del Corpo e del Sangue del Signore: è il mistero di un Dio che si dona completamente, che si mette nelle nostre mani, che entra nel nostro cuore e nella nostra vita, per quanto povera e imperfetta essa sia. La preghiera autentica è quella che sa accogliere il dono sempre rinnovato di Dio, che raggiunge nell’Eucaristia il suo culmine, ma che attraversa – silenziosamente e, a volte, nascostamente – le nostre giornate.
Il libro del Siracide, un prezioso libro dell’Antico Testamento risalente al II secolo a.C., ci ricorda che per Dio non c’è preferenza di persone: l’amore del Padre, in altre parole, se incontra la nostra disponibilità, sa oltrepassare l’abisso della colpa e del peccato, sa raggiungere ogni persona nel suo valore e nella sua dignità, sa sempre far germogliare la vita trasfigurata dalla presenza accogliente e benevola di Dio.
Oscilliamo tutti tra l’atteggiamento del fariseo, pronto a giudicare, a usare gli altri come podio per mettere in mostra le proprie qualità, e l’atteggiamento del pubblicano, cosciente delle proprie mancanze e dei propri difetti: uno dei frutti più desiderabili e più genuini della preghiera è la capacità di andare oltre il nostro pregiudizio, per accogliere l’altro nella sua bellezza e nella sua fragilità, come noi siamo accolti – sempre, senza condizioni – da Dio.
E se vediamo che un nostro fratello o una nostra sorella stanno prendendo una via sbagliata, invece di rinchiuderci “tra sé”, possiamo farlo presente con carità e bontà, con affetto e premura. La correzione fraterna è un segno inequivocabile di quella giustizia che riceviamo in dono quando stiamo davanti a Dio: le nostre comunità ne hanno bisogno, come testimonianza di vita sinceramente evangelica. Siamo tutti uomini e donne che vanno a Dio, che vengono da Lui accolti, che sono chiamati ad annunciare la bellezza dell’amore ricevuto.