A cura di don Roberto De Nardin (3ª domenica di Quaresima)

La “santa” rabbia di Gesù

I vangeli non lo dicono esplicitamente, ma è indubbio che una volta anche Gesù si sia arrabbiato

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La rabbia: un gran problema. Emozione primaria (affine alla paura, al disgusto e alla gioia) legata alle dimensioni primordiali della nostra biologia umana, l’ira è come un fuoco che esce dal profondo e scatena in noi che (spesso) la proviamo una forza che spaventa, proprio per i risvolti violenti e le reazioni incontrollabili che può generare. Reazioni che accomunano tutti gli uomini, di tutti i tempi e a tutte le latitudini. Eppure – ce lo dice chi studia queste cose – proprio la rabbia, come le altre emozioni, in sé non è né buona né cattiva: ci attraversa, punto e basta. A noi il compito ingrato di incanalare questa energia straordinaria, senza arrecare eccessivo danno a noi e agli altri. Ma, in fin dei conti, quando ci si arrabbia davvero? Sicuramente per tanti motivi, legati a volte alla nostra immaturità o egoismo, spesso banali, addirittura drammatici; ma a ben guardare la fonte della nostra ira si può aggirare intorno ad alcuni poli ricorrenti: un’occasione mancata, un bene sottratto, un’ingiustizia subita. Se concepita in questo modo, la rabbia può – ben inteso, può – essere forza che sprigiona e difende il bene supremo; può rivelarsi un motore di vita.

I vangeli non lo dicono esplicitamente, ma è indubbio che una volta anche Gesù si sia arrabbiato, e non poco. L’episodio di questa terza domenica di Quaresima, uno dei più noti della sua missione pubblica, ce lo racconta nei particolari: colpi di frusta, bancarelle per aria, cacciata in malo modo di cambiamonete e mercanti. Siamo nel Tempio, luogo centrale per Israele dell’incontro con Dio, e in quel frangente lo immaginiamo affollato da moltitudini chiassose di pellegrini provenienti da ogni dove, nell’ambiguo contesto di ogni grande apparato sacro che mescola la preghiera con tanto altro. Colpo di scena: con l’ira di Gesù si consuma una volta per tutte il fragoroso gran finale di questa religione. Il centro fondante del culto di Jahvè è stato depravato nella sua stessa funzione: ha messo in commercio Dio stesso. È il rischio di ogni religione del sacrificio: diventare culto esteriore, vernice che salva l’apparenza, logica del “dare – avere”, fare le cose sacre. Ma a Dio non serve che gli venga offerto proprio nulla! Non ha bisogno di offerte che lo plachino, di privazioni che lo rabboniscano…di rinunce che lo comprino – atteggiamenti che persistono ancora in una certa mentalità religiosa e che, purtroppo, è alimentato da taluni ambienti di Chiesa, nel passato ed anche oggi. Di per sé non c’è bisogno nemmeno di un luogo fisico per adorarlo… È il nostro cuore il vero tempio ed è esso che deve cambiare, in modo magari nascosto, per avvicinarsi al cuore di Dio. Ecco il nuovo modo di concepire la religione: tutto ciò che compiamo in termini di rinuncia è esercizio – certamente doveroso- che innanzitutto lotta contro il nostro egoismo, che ci avvicina a Dio stesso, che attinge al suo Amore e che ci smuove verso la libertà di amare davvero.

La “santa” rabbia di Gesù di oggi è allora spinta di un Cuore che ama per difendere la scoperta di questo grande dono! Il vero peccato è perdere questa occasione. Gesù ci libera per essere liberi, per riconoscerlo nei fratelli, per essere contenti del bene che possiamo compiere; non ci condanna a servire un Despota da schiavi spaventati, a sentirci sempre in difetto, a non piacergli mai abbastanza, a non scoprire mai il bello di credere! Si “arrabbia” per difenderci dal nostro stesso “Io”, padrone dei più grandi mercati di questo mondo…Già questa è buona notizia, è il vangelo! Ci vogliamo sentire allora davvero sollevati nel rigenerante cammino della Quaresima, aria fresca per la nostra vita di fede. Riceviamo questo annuncio di gioia che viene prima di ogni altra “cosa” sacra.

E con i comandamenti, come la mettiamo? “Devi e non devi…” L’accostamento della prima lettura di questa domenica è illuminante per farci comprendere ancora meglio il dono del vero culto di Dio. Il nostro cuore è limitato, il nostro amore è imperfetto; benissimo, prendiamone atto con serenità e riceviamo in dono dieci parole – la definizione corretta del Levitico è questa! – per continuare il nostro cammino orientati al bene. E – bella notizia – è tutto gratis! Dieci parole che esprimono una catena, una cordata a cui aggrapparsi per vivere davvero a pieno; non un elenco asettico di norme da evadere o da rispettare con scrupolo: “questa sì, questa no”. La vita di Dio è più grande e ampia di quanto possiamo immaginare, è un dono che possiamo solo ricevere nella vera libertà e che non ci chiede nulla in cambio se non “lottare” con il nostro cuore per smuoverlo, spronarlo, avvicinarlo a quello di Dio… Che “rabbia” allora sarebbe perdere anche oggi quest’occasione!