A cura di don Roberto De Nardin (2ª domenica di Quaresima - Anno B)

Punti di non ritorno

Una volta scesi da quella vetta, proprio in forza di quello che abbiamo sentito, continuiamo il corso della vita

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“Mi vuoi sposare?”; “aspetto un figlio”; “ho un tumore”; “la mamma non c’è più”; per la prima volta “ti voglio bene”. Non sono solo frasi, brevissime emissioni di fiato che trasmettono un contenuto, pronunciamenti occasionali di una notizia. No, sono molto di più. Sono parole che, quando accadono, cambiano il normale corso della vita, ne dirottano la precedente direzione, segnano dei punti di non ritorno, ci colgono spesso impreparati; sono parole dalla forza talmente incisiva che di esse possiamo ricordare con certezza il giorno, l’ora, il luogo preciso dove eravamo, persino come eravamo vestiti, nell’attimo in cui le abbiamo sentite.

Così è la forza di certi attimi che si fissano in noi e ci trapassano il cuore, che ci scaraventano subito su una vetta ardita sulla quale, nell’estremo della gioia o del dolore, siamo costretti a salire. E una volta scesi da quella vetta, una volta assorbito il colpo, proprio in forza di quello che abbiamo sentito, continuiamo il corso della vita, sicuramente diversi da prima, con la fatica o l’impegno dei passi di ogni giorno…

Ecco, se dovessimo anche solo tentare di spiegare cosa possa significare “trasfigurazione” non troveremo forse analogia più adeguata di questa. Almeno da parte di chi scrive. Ed è singolare che proprio agli albori del nostro cammino di quaresima, dal deserto delle tentazioni siamo catapultati in cima ad un monte (il Tabor, forse?) sul quale Gesù ha condotto alcuni dei suoi – non tutti… – e come lì si è «trasfigurato», rivelando per un attimo la sua gloria, prima di affrontare con loro e per loro (e noi) la realizzazione della sua missione terrena, passando per la croce… Il monte alto, la luce splendente, il bianco accecante, le apparizioni dei pilasti della fede israelitica Mosè ed Elia e infine quella voce profonda, solenne, imperscrutabile, eterna: «Questi è il figlio mio, l’amato, ascoltatelo». Sono tutte condizioni ideali per un’esperienza straordinaria, un evento di grazia in cui il tempo rallenta e si vorrebbe bloccare, prolungare, fotografare. Simili ai nostri “momenti d’estasi”: preziosi, ma fugaci.

E la reazione di Pietro, con la sua ingenua proposta, è anch’essa vicina al nostro modo di stare al mondo: affastellando istanti, belli, di gioie effimere; immersi come siamo dalla velocità di immagini che non colgono il divenire profondo dell’esistenza; incapaci di scorgere il soffio dell’eterno. Sembra che tutto debba consumarsi lassù, in vetta; il resto – come si dice – è noia… Ma, stando a quell’altezza, quanto rischio di perdere la vita vera, quante illusioni o visioni fuorvianti. Sempre su un monte, Abramo è in punto supremo, accecato da una voce – la stessa Voce – che sembra chiederli tutto, la vita, il proprio stesso figlio – tra l’altro, aspetto non nuovo per le divinità pagane dei quei tempi. In realtà il nostro Dio non può volere il male, non può chiedere tutto: nell’apice della gioia o del dolore Egli non esige per Lui ma chiama alla fiducia di stare con Lui! Finita la visione, a Pietro, Giacomo e Giovanni, guardandosi intorno, non è rimasto che vedere Gesù solo, con loro…

Nel cammino di questa Quaresima siamo dunque sollecitati ad andare a fondo, in un “concentrato” che ci pone davanti alla nostra verità. Non c’è solo deserto, non solo tentazione; c’è anche la vetta che ci lancia nella gioia o che, nel trauma, smuove in noi energie sconosciute. Ogni vetta, insomma, è sempre solitaria; il resto è discesa a valle: un “rilascio lento” nelle lande del quotidiano. Allora il vero sacrificio, la grande fatica che ci è chiesta, non è la pretesa di dare o ricevere tutto in un istante ma la forza di coltivare la fiducia in colui che non ci lascia mai soli. È coltivare la fede che, davvero, «Gesù Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!».