Quella “diga” nello sguardo

Una riflessione del vescovo Renato sulle pagine dell’Osservatore Romano

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Nel sessantesimo anniversario del disastro del Vajont un inaspettato ed esteso interesse sul tragico accaduto della sera del 9 ottobre 1963 si è acceso un po’ ovunque: molti gli eventi di memoria anche oltre il territorio che ha subito l’immane ferita di quella serata, parecchie le circostanze di commemorazione e di studio dei fenomeni avvenuti nel Vajont. Come se la memoria di ciò che accadde allora, fosse rimasta incompiuta. Sessant’anni dopo il ricordo svela nuove trame, sollecita mille emozioni, attiva comprensioni nuove, offre conoscenze che solo ora si spiegano.

Mi hanno sempre molto colpito i volti dei superstiti. Vi riscontravo dei tratti di silente dolore – trattenuto fino al punto di non poterlo decodificare e neppure sciogliere ed elaborare – e mi sembrava che trasparisse dallo sguardo e dalle espressioni di quei volti una paradossale e immaginaria diga: immobile, rigida, cementata. Quanto oggi si può vedere del paesaggio all’imbocco della valle del Vajont si rispecchiava nel modo di presentarsi dei superstiti: uno scenario rimasto bloccato, con un enorme pezzo di montagna di mezzo.

Mentre scrivo queste parole, che rievocano un grande dolore sopito, sento l’eco delle parole di prossimità e di cura pronunciate da Papa Francesco venerdì 19 gennaio nell’udienza da Lui concessa ai superstiti del Vajont: «Quel dolore incalcolabile e inenarrabile, come un’enorme lastra di ghiaccio nel cuore». È come se il Papa sia riuscito a dare il nome a quanto portano con sé quelle persone. Alcune di loro si erano trovate nel turbine che si era scatenato e sono state tratte in salvo da braccia soccorritrici improvvisate in quei tremendi istanti, altre persone erano fortuitamente fuori raggio ma avevano sentito il forte vento, provato la grande paura e si sono poi messe in fuga o cacciate in casa.

Nell’abbraccio con Papa Francesco si è aperta una breccia di verità, oltre la quale è apparsa una narrazione “altra” che il contesto del sessantesimo anniversario cercava e invocava. Papa Francesco ha osato parole di fiducia e di speranza: «Per voi immagino sia accaduto che quel dolore […] grazie al calore della vostra coesione, alla vicinanza di molti e all’aiuto di Dio, si sia lentamente scongelato, per irrigare poi nuovamente la società».

È la narrazione di una storia che ha conosciuto una lunga e travagliata gestazione, con più sussulti di attesa e cadute di desolazione, tra l’alternarsi di riprese e di esitanti vuoti.

Nel silenzio della commemorazione del 9 ottobre di ogni anno – rotto soltanto dal conturbante suono dell’unica campana superstite – vengono pronunciati i 1910 nomi di bambini e giovani, uomini e donne che sono stati spazzati via dalla tremenda onda provocata dal franamento della montagna nel bacino delimitato dall’ardita opera ingegneristica della diga del Vajont.

Ed ecco ancora la verità cercata da Papa Francesco: «Se sessant’anni fa, esattamente il 9 ottobre del 1963, una catastrofica ondata spazzò via interi paesi e frazioni, provocando 1910 vittime, voi siete un’onda di vita». Ecco il sospiro che misura un tempo di sessant’anni e porta con sé un potenziale da accogliere: «Voi siete un’onda di vita». È una consegna insperata, ma finalmente riversata, una sorta di missione da compiere ancora di più, ancora meglio: «A quell’ondata di annientamento e distruzione avete risposto con il coraggio della memoria e della ricostruzione. Penso a tutte le gocce silenziose che hanno formato questa grande ondata di bene: ai soccorritori, ai ricostruttori, ai tanti che non si sono lasciati imprigionare dal dolore ma hanno saputo ricominciare. Voi siete artefici, siete testimoni di questi semi di risurrezione, che forse non fanno molta notizia, ma sono preziosi agli occhi di Dio, “specialista in ripartenze”, Lui che da un sepolcro di morte ha avviato una storia eterna di vita nuova».

Sorprendete, poi, l’atto supremo compiuto da Francesco di fronte ai testimoni: «Grazie per la vostra testimonianza».

Il coraggio della sua gratitudine ha annunciato una “risurrezione”. Mi ha colpito tantissimo questo passaggio, questa “Pasqua” celebrata con i superstiti del Vajont. È il dono grande dell’incontro con Papa Francesco. Si può ammettere, senza esitazione, che cercavamo proprio questa verità!

In questa luce anche la rabbia per l’enorme ingiustizia subita dalla popolazione in quel magnifico territorio è diventata un cammino di responsabilità, un percorso di salvezza da aprire a 360 gradi: «E voi, di fronte alla tragedia che può scaturire dallo sfruttamento dell’ambiente, testimoniate la necessità di prendersi cura del creato. Ciò è essenziale oggi, mentre si sta sgretolando la casa comune, e il motivo è ancora una volta lo stesso: l’avidità di profitto, un delirio di guadagno e di possesso che sembra far sentire l’uomo onnipotente. Ma è un grande inganno questo, perché siamo creature e la nostra natura ci chiede di muoverci nel mondo con rispetto e con cura, senza annullare, anzi custodendo il senso del limite, che non rappresenta una diminuzione, ma è possibilità di pienezza».

È stato immediato posizionarci nella narrazione del Vangelo, quando diventa “parola che dà vita”: «Va’ e anche tu fa così» (cfr. Lc 10,37b). Ha questo stesso significato ed estende il Vangelo a noi quanto Papa Francesco ha affermato: «L’avidità distrugge, mentre la fraternità costruisce».

Ho vissuto sotto questo cono di luce evangelica i tre giorni di pellegrinaggio con i “superstiti” del Vajont. Posso raccogliere i mille e mille istanti di tale esperienza nel dono della fraternità che i “superstiti” hanno potuto maturare seppure in una lunga e faticosa gestazione. Ora non servono fremiti di esitazione, di paura, di rimozione, di desolazione. Il seme da coltivare e far germogliare è altro: «Riconoscere la bellezza del creato e saper dare alle cose il giusto ordine, per smettere di devastare l’ambiente con logiche mortifere di avidità e collaborare fraternamente allo sviluppo della vita».

Nel viaggio di ritorno ho sentito i racconti “nuovi” da parte dei superstiti o, meglio, ho percepito lo sguardo rinnovato con cui continuare il cammino di vita e con cui costruire il tessuto comunitario. Mi sembra racchiuso da questo finale benedicente di Francesco: «Voi lo fate, custodendo la memoria e testimoniando come la vita possa risorgere proprio là, dove tutto era stato inghiottito dalla morte».

 24 gennaio 2024

 + Renato Marangoni
Vescovo di Belluno-Feltre