Saluto il vescovo di Belluno-Feltre Renato Marangoni, il vescovo di Vittorio Veneto Corrado Pizziolo, il vescovo emerito di Belluno-Feltre Giuseppe Andrich (che molto si è adoperato per la beatificazione di Albino Luciani) e con loro saluto i confratelli vescovi presenti, i presbiteri, i diaconi, le persone consacrate, i fedeli laici, gli abitanti di Canale d’Agordo e quanti provengono dalle diverse diocesi del Triveneto.
Un ringraziamento particolare va alle autorità civili e militari.
Domenica scorsa, in Piazza San Pietro, una nutrita e gioiosa rappresentanza di pellegrini veneti ha partecipato alla beatificazione di Albino Luciani / Papa Giovanni Paolo I. Rimane viva, in tutti noi, la bella testimonianza di una quarantina di ragazzi e ragazze che hanno percorso a piedi lunghi tratti di strada seguendo la “Via Francigena”.
Papa Francesco – a cui va il nostro pensiero – ha proclamato Albino Luciani beato, indicandolo alla Chiesa come esempio.
Oggi siamo venuti a Canale, dove tutto è cominciato; sì, perché da qui è iniziato il cammino di santità di Albino Luciani, umile e grande figlio di questa terra.
Canale d’Agordo (o come allora si chiamava Forno di Canale) – che, con i borghi di Caviola, Vallada e le frazioni, contava poco più di quattromila abitanti – diede i natali ad Albino Luciani il 17 ottobre 1912; in quel periodo il Veneto e soprattutto le sue terre montane erano luoghi di emigrazione, abitati da gente povera che sapeva bene il significato della parola “fame”.
A distanza di anni, Luciani renderà questa bella testimonianza: “… sono stato fanciullo di famiglia povera… Ma quando, entrando in Chiesa, sentivo l’organo suonare a piene canne, dimenticavo i miei poveri abiti… Di qui la prima vaga intuizione… la Chiesa Cattolica non è solo qualcosa di grande, ma fa grandi i piccoli” (Giulio Nicolini, Trentatrè giorni: un pontificato, Bergamo 1983, p. 150).
La preghiera di colletta, appena recitata, ci ha ricordato la straordinaria “umiltà” di Luciani ma anche l’“incrollabile testimonianza di fede, speranza e carità” che Dio Padre ci ha offerto nel nuovo Beato come segno del Suo “intramontabile amore”.
Proprio all’umiltà e alle virtù teologali – fede, speranza e carità – papa Luciani dedicò le quattro catechesi del mercoledì che poté tenere nel suo breve pontificato; quegli insegnamenti, ancor oggi attualissimi e da riscoprire, ci conducono con semplicità e concretezza ai fondamenti della vita cristiana.
Le letture, or ora proclamate, possono essere “raccolte” sotto un comune denominatore che è il motto episcopale di Luciani: “Humilitas”.
Ma come fu intesa e cosa ha significato l’umiltà per il nuovo Beato?
L’umiltà non è tirarsi indietro per mancanza di coraggio; la fortezza, infatti, è anch’essa virtù cristiana. L’umiltà, così, è non imporsi, non mettersi in mostra, non autocandidarsi ed anche saper ammettere i propri limiti, accettare incarichi scomodi e assumere scelte difficili che non saranno capite ma che sono vere e giuste. Umiltà è, poi, affidarsi al Signore.
“Davanti a Dio, Abramo dice bene: «Sono soltanto polvere e cenere davanti a te, o Signore!». Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio”, disse Luciani nella sua prima udienza generale da Papa. E, commentando il Vangelo appena ascoltato, proseguì: “Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti è: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi” (Giovanni Paolo I, Udienza generale del 6 settembre 1978).
L’umiltà, secondo Luciani, è quella che non guarda a se stessi ma a Gesù che dice: “…imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30).
Humilitas, quindi, lo ribadisce san Paolo nella lettera ai Filippesi, significa avere “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,5-7).
Siamo convenuti qui come pellegrini per ringraziare Dio del dono della beatificazione di Albino Luciani; sì, proprio qui, a Canale, dove il Signore ha preparato e costruito la vita di chi stava per chiamare a compiti delicati e ardui. Così Dio ha voluto “formarlo” secondo i suoi criteri e non come si formavano gli eredi delle famiglie regnanti oppure, come oggi, si preparano i manager dei più importanti gruppi economico-finanziari.
Luciani nasce in un contesto umile, povero, laborioso, onesto, segnato dalla fatica quotidiana del vivere; un ambiente contadino, di montagna, semplice e dignitoso, povero ma generoso, dove – come si dice – si deve “far quadrare il pranzo con la cena”, ma dove si danno rapporti autentici.
Significativa è la testimonianza di Carlo Sgorlon che, in modo efficace e con poche parole, presenta l’humus in cui crebbe il piccolo Albino, futuro papa, beato Giovanni Paolo I: “La fede di papa Luciani ha le sue radici nella madre, Bortola Tancon, nella cultura e nell’inconscio delle genti venete e alpine. L’inconscio collettivo dei veneti è istintivamente religioso; quello delle popolazioni alpine lo stesso…” (AA. VV, Un regno di 33 giorni, i cinque papi della nostra vita, Milano 1983, p.138).
Così, già in famiglia, Albino apprende i valori fondamentali della vita; dal papà impara come mantenere fede agli impegni presi, dalla mamma la fede e il vivere cristiano. Giovanni e Bortola si erano incontrati a Venezia; lui era operaio a Murano, lei era cuoca presso il convitto della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Bortola, oltre che grande lavoratrice, era una donna piena di vita e aveva sposato un uomo rimasto vedovo con due figlie sordomute; il marito passerà gran parte della vita come migrante in cerca di lavoro in vari paesi d’Europa e, anche, in Argentina.
Gente di montagna, semplice ma di grande dignità e spessore umano; lo dimostra la lettera – che Luciani rileggeva spesso, anche a distanza di anni e già vescovo – con cui il padre, allora in Francia, diede il consenso al figlio Albino per entrare in Seminario e diventare prete: “Figliolo, mi è giunta la tua notizia improvvisa e inaspettata. Sento che vuoi farti prete, che vuoi andare in seminario. Noi siamo poveri, ma onorati se tu ti fai prete. Tua madre sarà contenta. Quello che mi preme dirti è di pensarci bene prima di decidere, non devi farci fare brutte figure davanti al paese, né tanto meno devi prendere in giro il Signore o il parroco che ti vuole bene. Se non ti senti torna a casa. Io sono contento…”.
Ancora qui a Canale d’Agordo il 6 gennaio 1959, pochi giorni dopo l’ordinazione episcopale (era stato consacrato da Giovanni XXIII, in San Pietro, e destinato a presiedere e servire la Chiesa che è in Vittorio Veneto), Albino Luciani manifestò tutta la gioia e la meraviglia di quanto il Signore andava compiendo nella sua vita: “Miei cari paesani, chi l’avrebbe mai detto che in questa chiesa, a Canale, dove io sono nato, dove ho giocato fanciullo, dove, durante le vacanze, mi avete visto lavorare colla falce e col rastrello; in questa chiesa dove ho fatto la prima comunione, sono stato chierichetto, cantore; dove sono venuto a confessare le mie birichinate e i miei poveri peccati; chi l’avrebbe detto che oggi sarei comparso con queste insegne a pontificare e a predicare?”. E, ancora, torna il tema dell’umiltà e l’immagine della polvere: “Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto, prende la gente dai campi, dalle reti del mare, del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia bene chiaro che tutto è opera e tutto è merito del solo Signore. Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere” (Albino Luciani/Giovanni Paolo I, Opera omnia, Padova 1988, vol. II, 13).
È la stessa meraviglia, ricolma di gratitudine per le opere che Dio compie nella storia anche “minuta” dei nostri paesi e della nostra gente, che oggi ci pervade nell’acclamare Albino Luciani tra i Beati della Chiesa!
Sottolineare la sua umiltà, peraltro, non significa non riconoscerne l’intelligenza, la fortezza e il valore pastorale del suo ministero – nei diversi uffici ecclesiali che gli furono affidati – ed anche del suo magistero.
Luciani mai cercò di mettersi in mostra per la sua cultura o per il sapere teologico né, tantomeno, voleva dare l’immagine d’ “intellettuale” o “accademico”, poiché non mirava ad essere apprezzato perché dotto o istruito; piuttosto, aveva a cuore il bene delle persone a cui si rivolgeva – nelle omelie, nei discorsi, nelle udienze – e sapeva essere efficace e parlare al cuore e all’anima con riferimenti comprensibili da tutti, presi dall’esistenza di ogni giorno e non per questo meno profondi. Ma questo, presso i sapienti del mondo, non paga mai.
La sua umiltà fu un cammino di fedeltà e obbedienza al Signore che lo ha voluto prete, vescovo e papa. Albino Luciani fu un grande catechista ed evangelizzatore, appassionato nel trasmettere il Vangelo, come già si vede nel suo saggio “Catechetica in briciole” pubblicato nel 1949, ricco di consigli e indicazioni per vivere bene quel momento, consapevole della sua importanza: “Il catechismo spiega perché si soffre a questo mondo, come bisogna impiegare la ricchezza, perché tutti devono lavorare. Ci mette avanti Cristo per modello e ci dice: Fate come Lui! È vostro fratello. Vi vuol bene, vi perdona, viene a vivere in voi! Il catechismo ci grida continuamente: Sii buono, sii paziente, sii puro, perdona, ama il Signore! Insomma non esiste al mondo forza moralizzatrice più potente del catechismo” (Albino Luciani/Giovanni Paolo I, Opera omnia, Padova 1988, vol. I, 17).
L’umiltà di Albino Luciani non aveva come criterio il “politicamente corretto” che, oggi come ieri, impone al catechista, al prete o al vescovo di autocensurarsi per non dire parole scomode o affrontare temi sgraditi, diventando così “afoni” rispetto al Vangelo e finendo col proporre se stessi e non Gesù “via, verità e vita” (Gv 14,6). Questa e non altra è l’umiltà coraggiosa e autentica a cui Luciani si rifaceva e che viveva lui stesso prima di indicarla agli altri.
Tre “stelle” guidarono l’umile e grande figlio di Canale d’Agordo lungo tutta la sua vita. Tre stelle che insieme alla parola “Humilitas” sono state presenti nel suo stemma episcopale: queste tre stelle sono proprio le tre virtù teologali.
Albino Luciani si esprimeva così: “La fede, la speranza, la carità, sono il centro di tutta la vita cristiana. Le ho scelte per me queste tre stelle e le ho scelte anche per il mio futuro popolo – diceva al termine del discorso, proprio qui a Canale, appena ordinato vescovo -. Se mettiamo in pratica queste tre cose, siamo a posto: se abbiamo la fede, se abbiamo la speranza, se abbiamo la carità. Cercate anche voi di fare altrettanto. Siamo tutti poveri peccatori… Allora cerchiamo di stare uniti a nostro Signor Gesù Cristo, cerchiamo di essere buoni a costo di qualunque fatica, a costo di qualunque sacrificio. Il Signore ci ricompenserà e ci premierà” (Albino Luciani/Giovanni Paolo I, Opera omnia, Padova 1988, vol. II, 14.16).
Tutto ciò era talmente vivo e radicato in Lui al punto che umiltà, fede, speranza e carità furono – come già detto – il tema ricorrente e ripetuto con forza nel suo brevissimo ma intenso magistero di vescovo di Roma e Vicario di Cristo.