Isaia 62,11-12; Sal 96 (97); Tito 3,4-7; Luca 2,15-20
Non eravamo abituati al luogo dei pastori, dove giunge il tocco di Dio, il suo annuncio di gioia. Proprio lì germoglia il Vangelo degli inizi e comincia la sua corsa. Quel luogo è descritto così dall’evangelista Luca: «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge».
Ci sconcerta il giungere di una prima parola di Dio in quel modo, con quello stile, nella notte, ad alcuni pastori che facevano la guardia al loro gregge. È una situazione di evidente precarietà, sfumata nei contorni di tempo e di luogo.
Sopraggiunge così colui che il profeta Isaia ha preannunciato con queste parole: «Ecco, arriva il tuo salvatore».
Questo delicato e inaspettato “tocco di Dio” è avvolto – come se dovesse essere protetto – dall’oscurità della notte.
Questa leggera e impercepibile azione di Dio è così umana da lasciarci indifferenti. Ed essa penetra fino al cuore della notte.
Paolo, nella seconda lettura, usa un linguaggio semplice e dimesso: «Apparvero la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini».
Oggi noi ci chiediamo che cosa possa essere il Natale. Siamo imbarazzati di fronte allo spropositato utilizzo che oggi si fa di questo esile e fragile inizio della “bontà di Dio” e del “suo amore per gli uomini”.
Se siamo alla ricerca di Dio, se cerchiamo un suo segno, se siamo in attesa di una sua rivelazione, il Natale – da come ci viene narrato nel Vangelo – ci sorprende e cerca di spostare il nostro sguardo, la nostra attenzione.
Ci sono molti motivi di preoccupazione e di disagio nel nostro contesto di vita.
Qualche giorno fa commentando il clima socio-culturale nel quale siamo immersi, è stato scritto: «Siamo un popolo di stressati, perché non abbiamo un traguardo, una prospettiva. Ci manca il futuro e per questo il presente diventa faticoso, fastidioso» (Giuseppe De Rita).
Sullo sfondo dell’annuncio del profeta Isaia, sembra esserci una condizione di sfiducia simile a quella che ci caratterizza oggi. Il profeta la sintetizza così: “città abbandonata”. Anche Paolo nella seconda lettura usando l’immagine dell’«acqua che rigenera e rinnova», disegna una situazione di perdita di speranza.
Sono proprio i pastori, che il Vangelo di Luca ci presenta come compagni di viaggio, a dirci: «Andiamo, dunque, fino a Betlemme vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».
Questo mettersi in cammino, questo desiderare ancora, questa percezione che una breccia di novità sia ancora possibile, questo dare credito alla vita, questo affidarsi ad una storia che comincia, questo incoraggiarsi l’un l’altro, questo svincolarsi dagli indugi, questo spostarsi dalla condizione in cui ci siamo lasciati andare fino all’abbandono, questo lasciarsi stupire… è tutto lì in quel bambino, adagiato nella mangiatoia.
Mi viene da chiedere a me stesso, ma mi permetto di condividerlo con voi: ma dove noi l’abbiamo ricollocati “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”?
Ieri un quotidiano raccontava uno di questi cammini, simile all’andare dei pastori a Betlemme. Ve lo leggo per incoraggiarvi e dirci l’un l’altro: “andiamo anche noi a Betlemme!”.
«Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non poter fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso. Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. […] Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno dopo giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei cuori».
“Andiamo anche noi a Betlemme!”.