Come avvicinarci a questa impotenza e umiltà di Dio?

Celebrazione della Passione del Signore in Cattedrale a Belluno
29-03-2024

Is 52,13-53,12; Sal 30 (31); Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

Abbiamo iniziato nel silenzio, con dei gesti che evocano la prostrazione, la perdita, l’essere precipitati a terra, il senso dell’inutilità di quanto già vissuto e realizzato. Nei riti di questa celebrazione della Passione possiamo avvicinarci a questo svuotamento quando sembra che il mondo ci cada addosso e non ci sia più possibilità di riscatto o di una via d’uscita. È il momento in cui ci si trova nel baratro del vuoto, dell’impotenza, dell’annientamento. Non sto esagerando. Sono tante le situazioni in cui frammenti della nostra stessa umanità cadono in questi inferi, nella solitudine dell’abbandono e nella paralisi dell’impotenza: la malattia, il tradimento, l’abuso, la guerra, il femminicidio, il fallimento, la condanna inflitta, la pena di morte, la morte stessa… È l’attimo in cui tutto ciò che si è fatto, che si è vissuto, che è stato ricevuto risulta inutile. È il momento più oscuro per la vita umana. Nel salmo che abbiamo pregato c’è una figura di questa estrema condizione: «Sono come un coccio da gettare».

Ecco, Gesù è giunto nella sua passione, che stasera abbiamo rivisitato, proprio lì al punto di essere gettato come coccio rotto e inutile, come intrigo, come ostacolo, come pietra d’inciampo, come nemico, come usurpatore, come blasfemo… Nella farsa di processo a cui viene sottoposto tutto il bene da lui compiuto precipita e svanisce di fronte a quel grido che l’evangelista mette in bocca a chi stava in prima fila nell’illusione del potere: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Nei giorni scorsi abbiamo letto da Isaia, qualche capitolo prima di quanto abbiamo ascoltato stasera: «Ho faticato invano, per nulla e inutilmente ho esaurito la mia forza» (Is 49,4). Gesù è giunto a questo estremo, lì dove appare che tutto è stato inutile. Si insinua la tentazione più grande. È «La prova di tutte le prove. Quella che Gesù stesso, per un attimo, ha domandato al Padre se non gli potesse essere risparmiata. Quella prova/tentazione, che sintetizza tutte quelle in cui Gesù ci ha insegnato a chiedere al Padre di non essere abbandonati» (Pierangelo Sequeri).

Siamo tutti imbarazzati dentro la passione di Gesù: la nostra fede si fa difficile, siamo investiti da mille dubbi e dalla stessa prova della fede nella quale abbiamo creduto. Troppe volte ci siamo abituati a pensare e a dire, mondanamente, l’onnipotenza di Dio. All’inizio della lettera ai Filippesi, che abbiamo ascoltato domenica quando abbiamo fatto memoria dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, l’apostolo Paolo, dopo essere anche lui entrato nella prova delle fede, si è avvicinato al mistero della passione intravvedendo lì, nello scandalo e nella stoltezza della croce, il vero volto di Dio: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio […] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (2,6).

Ma come avvicinarci a questa impotenza e umiltà di Dio che si manifesta in Gesù? L’evangelista Giovanni stasera con tenerezza e delicatezza ci ha condotto dinnanzi al buio della morte di Gesù mettendoci accanto alla madre di Gesù, a sua sorella e a Maria di Màgdala. Accanto c’è il discepolo che Gesù amava. Lo percepite? C’è una scintilla d’amore che viene accesa, in quel buio, in quel vuoto, in quella crudeltà… Lì la bruttezza e la cattiveria e la violenza scatenate sembrano ancora vincere, ma sono ribaltate dall’ultimo amorevole sguardo di Gesù, dal suo donare tutto – la madre al discepolo e il discepolo alla madre – dalle sue parole finite: «Ho sete. […] È compiuto!». Gesù china il capo e consegna lo spirito. Un sottile filo d’amore rompe l’abbondono, spezza l’inganno. Dio nella sua impotenza promette risurrezione alla vita che ha e riceve amore, proprio lì quando la potenza del male ha presunto di sconfiggerla. Fra poco nel rito dello svelamento e dell’adorazione della croce, non disperiamo, ma confidiamo e speriamo nell’amore!